C’e’ qualcosa di kafkiano nella tragicommedia italiana che va in scena sull’asse Roma-New York. A Wall Street e poi all’assemblea generale dell’Onu Enrico Letta ha appena finito di parlare di un Paese (il nostro) ”virtuoso, giovane e credibile”, deciso a inaugurare 12 mesi consecutivi di crescita, che a Roma il Copasir (il comitato parlamentare per la sicurezza) lancia l’allarme della sicurezza nazionale a rischio a causa della vendita di Telecom agli spagnoli di Telefonica.
Poco dopo dal vertice del Pdl nella Capitale filtra la minaccia dell’Aventino parlamentare: voci di dimissioni di massa di deputati e senatori consegnate nelle mani di Silvio Berlusconi da rendere effettive quando sara’ votata la decadenza del Cavaliere dalla carica di senatore. Comprensibile l’amarezza e l’irritazione del premier, cosi’ prontamente sconfessato nei suoi pronostici di stabilita’ dal terremoto che ha investito la rete telefonica italiana e dai crescenti malumori del centrodestra. Eppure Letta aveva sottolineato l’importanza che gli investitori internazionali attribuiscono alle garanzie che il nostro quadro politico puo’ offrire a chi e’ interessato ad investire in Italia molti milioni di dollari: garanzie che, in queste condizioni, sembrano non esistere. Nemmeno lo scudo del Quirinale, i colloqui di Giorgio Napolitano con i leader di maggioranza, hanno funzionato.
Che cosa ha determinato l’improvviso cortocircuito istituzionale? Con ogni probabilita’, come osserva Matteo Renzi, un mix di ragioni che riguardano la fragilita’ dell’attuale classe politica ma anche di quella imprenditoriale. Che Telecom ed Alitalia fossero realta’ scalabili dall’estero si sapeva da tempo, ma dietro il paravento del libero mercato nessuno ha ritenuto di prendere provvedimenti. Quanto alle fibrillazioni berlusconiane sta venendo a galla cio’ che e’ intuibile con il semplice buon senso: difficilmente il centrodestra, e soprattutto il suo leader, accetteranno la decapitazione senza contraccolpi sul governo delle larghe intese, concepito proprio per giungere ad una qualche forma di ”pacificazione” tra destra e sinistra (dunque anche ad un compromesso sulla sorte politica del Cavaliere). La stessa decisione di Berlusconi di trasferire la sua residenza a Roma suona come un implicito grido di battaglia, la mossa di chi intende continuare a duellare dal cuore politico del sistema e non si da’ per vinto.
Le preoccupazioni dei democratici, che richiamano gli alleati-coltelli al senso di responsabilita’, sono dunque piu’ che fondate. Colpisce in particolare il fatto che l’improvviso colpo di coda berlusconiano abbia colto un po’ tutti alla sprovvista: fino a poche ore prima si parlava della necessita’ di una ”verifica” di governo secondo le piu’ classiche liturgie, poche ore dopo di uno scenario elettorale verso il quale spingono peraltro aree non trascurabili di entrambi i partiti della ”strana maggioranza”. Certo, una crisi in questo momento sarebbe un salto nel buio e rischierebbe non solo di svuotare di senso i pochi successi ottenuti da Berlusconi (come il taglio dell’Imu) ma anche di spingere l’intero Paese verso una sorta di esercizio provvisorio: passaggio non piu’ possibile in teoria con la legge di stabilita’ che deve essere necessariamente votata, ma ravvisabile in concreto nelle perturbazioni finanziarie che la accompagnerebbero. Il gioco al rialzo del Pdl si risolvera’ nel solito bluff per tenere sulla corda la coalizione? Difficile dirlo. A furia di bordate, qualche proiettile rischia sempre di finire nella santabarbara del vascello di governo. Ma Berlusconi, al di la’ del suo destino personale, deve tenere comunque conto che l’ opinione pubblica non comprenderebbe una crisi il cui costo di scaricherebbe ancora una volta sulle spalle del Paese. E che il premier potrebbe alla fine non accettare, come ha detto una volta, il ruolo del punching ball perche’ un governo logoro non avrebbe la forza nemmeno di garantire l’ordinaria amministrazione. Mentre all’Italia servono una volta per tutte vere e radicali riforme.
Discussione su questo articolo