Da qualche settimana, l’allarme “spread” (ovvero, anche se ormai lo sanno anche i sassi, la maggior differenza degli interessi corrisposti a chi acquista titoli italiani rispetto a quelli tedeschi, che servono da punto di riferimento) è scomparso dalle prime pagine dei quotidiani che invece fino alla metà di novembre vi intitolavano le aperture ed i commenti. Allora viaggiava intorno ai 480 punti, adesso è salito a 530: vi è quindi un netto peggioramento, che tuttavia non merita l’attenzione prioritaria della stampa e di commentatori televisivi. Conta di più la rapina e l’omicidio di due sventurati commercianti (anche di denaro…) cinesi.
Evidentemente, l’allarme spread della prima settimana di novembre serviva a mettere sotto accusa Berlusconi e spingerlo alle dimissioni, rendendolo responsabile della situazione e facendolo preoccupare della possibilità che i cosiddetti “mercati” non avessero più fiducia in lui personalmente e nel suo governo, danneggiando così la finanza pubblica italiana. Qualcuno in alto loco se ne è approfittato, anche con qualche “suggerimento” esterno, ed è venuto il governo dei cosiddetti “tecnici”. In realtà, secondo il nostro modesto parere, ai “mercati” – che poi sarebbero speculatori ispirati da potenze straniere, apparentemente alleate nell’Unione Europea e nella Nato, come Francia, Germania e Stati Uniti – non interessavano Berlusconi o Bersani, Monti o Casini, ma l’Italia che doveva ritornare ad avere un ruolo per così dire “ancillare” nei loro confronti, ed anzi affrettarsi a “privatizzare”, cioè vendere loro qualche impresa lucrosa che bene o male possediamo: Eni, Enel, Edison (già in parte alienata), Poste, Finmeccanica, Unicredit, e via dicendo. Ancora questo progetto non si è realizzato, e non sappiamo – anzi speriamo – che non si realizzi.
Ma, al di là di queste considerazioni politiche, interroghiamoci su un punto: qual è il vero danno finanziario che il cosiddetto “spread” provoca alla finanza pubblica? Precisiamo innanzitutto, anche se sarebbe superfluo, che l’aumento dei tassi d’interesse si applica alle nuove emissioni di titoli del debito pubblico e non a quelli in essere, i quali mediamente già pagano – per quelli che scadranno quest’anno – il 2%. Quindi, adesso dovranno essere rinnovati al 6,5%-7% secondo l’andamento delle aste, con una differenza in più del 4,5%-5%. Ebbene, visto che nel 2012 dovranno essere rinnovati circa 350 miliardi di euro di titoli italiani, il maggior esborso d’interessi sarà di 15 – 18 miliardi di euro nell’anno, sempre ammesso – ma non dovrebbe essere così, altrimenti che abbiamo a fare un governo di “tecnici” con “credibilità” internazionale? – che il differenziale resti ai livelli attuali. Cifra certamente elevata, ma ci domandiamo: perché è stata necessaria una manovra finanziaria ammontante invece a quasi il doppio? Cosa c’entra lo “spread” , ad esempio, con l’allungamento improvviso dell’età pensionabile, quando fino a tre mesi fa tutte le istituzioni internazionali, europee e transatlantiche, affermavano ufficialmente che il sistema previdenziale italiano era in equilibrio? Cosa c’entra con l’imposizione di usare bancomat e conti correnti bancari o postali per le spese superiori a mille euro? E via dicendo.
Fra l’altro, la manovra di dicembre non è neanche giustificata dal deficit della finanza pubblica, perché i dati di questi giorni ci informano che nel terzo trimestre 2011, ultimo dato disponibile, quindi con Tremonti all’economia e Berlusconi al governo, vi è stata la maggior diminuzione registrata rispetto al 2008, a conferma di una tendenza alla contrazione della spesa pubblica.
Quindi, in conclusione: che ci sia un problema della finanza pubblica, è innegabile; che esso sia dovuto solo al governo Berlusconi, non corrisponde alla realtà dei numeri ma si trascina da decenni; che l’andamento negativo dei tassi d’interesse sia un fenomeno dovuto all’Italia non è neanche esatto, perché esso dipende anche dalla situazione di una moneta unica, l’euro, che non è sostenuta da abbondante liquidità (ossia, aumento della moneta in circolazione) e da un sostegno comune della Banca Centrale Europea ai debiti pubblici dei Paesi membri, come affermano tanti economisti di diverso orientamento politico.
Discussione su questo articolo