Trentadue imprenditori suicidi dall’inizio dell’anno, secondo le ultime stime ufficiali, ma il numero reale potrebbe essere ancora piu’ alto. Puo’ bastare la perdita del lavoro o dell’azienda a causa dell’attuale crisi economica, oppure l’impossibilita’ di pagare le tasse dovute, a spiegare tali gesti estremi? Probabilmente no.
A dare una lettura del fenomeno e’ lo psichiatra Giovanni Pozzi, dell’Universita’ Cattolica di Roma, specialista in Psichiatria occupazionale: ‘La ‘miccia’ alla base dell’escalation dei suicidi tra titolari d’azienda e non solo – afferma – e’ la perdita dell’identita’ sociale, sempre piu’ legata e identificata proprio con l’attivita’ professionale che l’individuo svolge’. Perdere il lavoro oggi, infatti, afferma l’esperto, ‘non vuol dire solo perdere lo stipendio, ma soprattutto vedere crollare la propria immagine sociale. Nella nostra epoca si lavora, cioe’, non solo per il soddisfacimento dei bisogni primari, ma soprattutto per avere un ruolo riconosciuto all’interno della cerchia sociale; cosi’, venendo meno il lavoro, viene meno anche l’identita’ e la ‘riconoscibilita’ sociale dell’individuo stesso. Il soggetto, che perde la propria immagine e il senso stesso della propria collocazione all’interno della societa’, vive dunque un ‘crollo’ psichico a 360 gradi’. Insomma, non si tratta solo del non riuscire ad arrivare a fine mese con i soldi.
A cio’ si aggiunge poi un particolare fenomeno gia’ noto in epidemiologia, il cosiddetto ‘fenomeno Pop-corn’: ‘Quando si verifica un fattore ambientale esterno particolarmente stressante, come puo’ appunto essere l’attuale crisi economica e del sistema degli ammortizzatori sociali – spiega lo psichiatra – si e’ osservato che fenomeni critici a carico di diversi soggetti si ‘sincronizzano’ manifestandosi simultaneamente, mentre in condizioni di normalita’ tali criticita’ individuali potrebbero rimanere latenti o manifestarsi in tempi diversi’. In altri termini, chiarisce, ‘la crisi attuale sta facendo emergere potenzialita’ suicidarie in vari individui nei quali, in assenza di tale situazione di difficolta’, questa inclinazione sarebbe invece rimasta latente’.
Cio’ che dunque spinge a ‘farla finita’, osserva ancora Pozzi, ‘non e’ tanto il pericolo concreto o la prospettiva di stringere la cinghia, quanto proprio la crisi identitaria’. A prova di cio’, aggiunge, ‘si e’ infatti osservato come, paradossalmente, nei periodi di guerra, quando si e’ chiamati a fronteggiare pericoli concreti e non ‘identitari’, i suicidi diminuiscono’.
In questa fase, inoltre, avverte lo specialista, ‘piu’ a rischio e’ la fascia dei 50-60enni: non sono pronti alla pensione, ma sanno che perdere il lavoro ora significherebbe non potersi piu’ ricollocare’. Quanto ai possibili ‘campanelli d’allarme’, rileva, ‘solo i familiari e chi e’ piu’ vicino puo’ cogliere quei cambiamenti caratteriali o umorali che, ovviamente in assenza di veri segni clinici di patologie, possono ‘annunciare’ un gesto estremo’. Che fare allora? In questa situazione, conclude Pozzi, ‘l’unica forma di prevenzione e’ dare messaggi chiari e fiduciosi, e questo vuol dire una politica delle istituzioni meno contraddittoria e autoreferenziale’.
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