La nascitura lista per l’Italia dovrebbe, a mio avviso, fissare un’agenda politica per il nostro Paese che, stante il deteriorarsi della situazione, ai limiti di una emergenza democratica, al primo punto ponga la questione economica:
1. Considerata la limitazione di sovranità nazionale che l’adesione alla moneta unica ha comportato, occorrerebbe innanzi tutto adoperarsi per rimuovere alcuni vizi capitali che hanno gravato sull’Europa sin dalle origini; in particolare:
a. La rigidità dei parametri Eurostat di controllo delle politiche di bilancio degli Stati membri (rapporto deficit/PIL), senza alcuna distinzione di trattamento tra flussi di spesa corrente e quelli per investimenti. Entrambi questi flussi concorrono indubbiamente a costituire lo stock del debito, ma con diversa prospettiva reddituale, che ne giustificherebbe un trattamento differenziato;
b. La significatività del rapporto debito/PIL, quale indicatore di stabilità economico-finanziaria degli Stati membri, rispetto al rapporto debito/patrimonio netto, universalmente impiegato quale indice di solvibilità di un’azienda. Il problema è che nel contesto dei conti pubblici, ufficialmente strutturati sotto forma di Conto Economico Consolidato di cassa e relativi saldi, non si dispone di uno stato patrimoniale della Pubblica Amministrazione. Le valutazioni preliminari del patrimonio pubblico, rese disponibili a fine settembre 2011 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), pur rappresentando una interessante novità, sono ancora incomplete e lacunose. A titolo meramente esemplificativo, fatto salvo l’accertamento della titolarità delle rispettive proprietà, ci si chiede: quanto valgono i quadri della Galleria degli Uffizi di Firenze, piuttosto che le tarsie marmoree del pavimento del Duomo di Siena o il Cristo di Cimabue nella chiesa di S. Domenico ad Arezzo? Evidentemente nessuno pensa di porre in vendita tali beni; la prospettiva viceversa è quella di promuoverne la cattura del valore, mettendoli in condizione di generare reddito, come avviene in altri Paesi che dispongono di un patrimonio artistico assai più modesto;
2. Sul fronte interno i provvedimenti più urgenti riguardano:
a. Una seria riforma fiscale che elimini definitivamente l’iniquità dell’IRAP, la tassa sul costo del lavoro, che non solo penalizza l’occupazione – in particolare nelle aziende indebitate ad alta intensità di lavoro – ma determina ratei fiscali elevatissimi (60-70 %) anche in assenza di capienza contributiva. Questa ridistribuzione del carico fiscale tra le aziende andrebbe fatta, per ragioni di equità, anche a costo di un innalzamento dell’aliquota IRES;
b. La difesa dell’occupazione e della dignità del lavoro. E’ stato più volte denunciato che una globalizzazione politicamente mal gestita, a seguito di una attuazione degli accordi, negoziati nel 1994 in sede WTO, di progressiva liberalizzazione dei mercati globali di beni, servizi e proprietà intellettuale, senza prevedere una ragionevole transizione modulata nel tempo, ha determinando, in un clima di costernazione impotente, una drammatica ridistribuzione di ricchezza e di lavoro tra i diversi Paesi del mondo, in larga misura a somma zero. D’altronde non può sorprendere il fatto che una Europa, concepita come mera unione monetaria, priva di identità politica e di una visione strategica condivisa, si sia fatta sorprendere impreparata non solo dal prorompere degli effetti perversi della globalizzazione ma forse ancor più, come ulteriore fattore aggravante, dalla crisi finanziaria che ha investito l’occidente (e in particolare l’Europa), a seguito della espansione patologica e a tutt’oggi incontrastata della finanza derivata, rispetto a quella al servizio dell’economia reale.
A questo proposito, ritengo che non sia lecito offendere la dignità di un giovane disoccupato, prospettandogli, come è stato fatto di recente, la disponibilità immediata di lavoro di facchinaggio presso i mercati ortofrutticoli o i supermercati rionali. In questo contesto, la contrapposizione ideologica e salottiera tra sostenitori del libero mercato e propugnatori di politiche industriali è stucchevole e datata. Non vi è dubbio infatti che, per tutte le attività che abbiano i presupposti di sostenibilità economico-finanziaria, in grado di remunerare il capitale investito, rimane sovrano il mercato, laddove per quelle che, per la loro valenza strategica (ad esempio la costruzione di grandi infrastrutture), fossero ritenute indispensabili per lo sviluppo del Paese, ancorché bisognose di sostegno pubblico, lo Stato non dovrebbe limitarsi a fare la lista della spesa e ad erogare le risorse occorrenti senza inquadrare gli interventi in un quadro organico, sostenuto da valutazioni rigorose di costi/benefici, che consentano di definire scale di priorità e livelli di intervento. La carenza storica di politica industriale è resa evidente dalla gestione improvvisata dei casi dell’ILVA di Taranto o dell’Alcoa in Sardegna. A questo proposito va detto che, a fronte di tali emergenze, sarebbe riduttivo e soprattutto scarsamente efficace se le istituzioni – piuttosto che condividere la responsabilità di individuare soluzioni realisticamente percorribili – pensassero di delegare alla magistratura un ruolo di supplenza inaccettabile.
Ci sarebbe molto altro da dire (dalle riforme istituzionali, tendenti a ridisegnare la mappatura dei poteri tra l’Esecutivo e il Parlamento, tra Stato e Regioni, allo snellimento di una burocrazia paralizzante che ostacola lo sviluppo, da una riforma seria della giustizia – che includa nei tempi lunghi una riscrittura integrale del codice civile e una revisione del diritto amministrativo), fino ad una revisione dei poteri di spesa delle autonomie locali, come reso palese dagli accadimenti recenti.
Vorrei concludere annotando che, a fronte della gravità dei problemi prospettati, che rappresentano solo una parte di un’agenda politica completa, infastidiscono i toni e le argomentazioni dei tanti grilli parlanti o le esternazioni dei professionisti dell’indignazione in servizio permanente effettivo, assai spesso fruitori di consistenti diritti di autore, che ci vengono quotidianamente propinati da una informazione televisiva rissosa, sempre più appiattita nell’intento di blandire il popolo delle piazze (da piazza Venezia a piazzale Loreto, da piazza San Giovanni a piazza del Popolo), assetato di populismo demagogico e di giustizialismo becero.
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