Paolo Borsellino, nato a Palermo il 19 gennaio del 1940, è oggi considerato – insieme al suo solidale amico e collaboratore Giovanni Falcone – uno degli uomini simbolo della lotta a Cosa nostra, nonché straordinario emblema di legalità e senso della giustizia da esportare con orgoglio in tutto il mondo. Un piccolo grande siciliano, indimenticabile sotto tanti punti di vista.
Fumatore incallito, “baffetto” alla spaghetto Western, Paolo a soli 23 anni entra a far parte del difficile “universo” della magistratura. Pretore a Mazara del Vallo e poi a Monreale decide di “sposare” l’idea di intraprendere una lunga sfida a suon di arresti e mandati di cattura alle cosche appartenenti al crimine organizzato di stampo mafioso, e non solo nella sua meravigliosa isola. Non cerca i pesci piccoli il “pool” guidato prima da Rocco Chinnici e poi da Antonino Caponnetto, ma la cupola, la cosiddetta “commissione”, i vertici di un sistema basato interamente sulla corruzione, la violenza e il malaffare.
Borsellino e Falcone vogliono, cercano, trovano ed incastrano direttamente i Capi, quei “mammasantissima” che hanno fatto tremare un intero popolo.
Passa all’Ufficio Istruzioni della Procura di Palermo (uno dei posti più delicati del comparto giudiziario) alla metà degli anni Settanta, sotto lo sguardo “paterno” di Chinnici e a fianco del Capitano Emanuele Basile con cui coopera attivamente sin dai tempi della Pretura. Prosegue il buon lavoro avviato dal compianto capo della mobile Boris Giuliano e dopo l’assassinio del caro “Rocco” diventa uno dei migliori uomini “sul campo” nelle terre martoriate dal sistema marcio che in molte occasioni vede anche coinvolta la politica e diversi apparati deviati delle nostre istituzioni.
Lavora instancabilmente con i suoi colleghi dagli inizi degli Ottanta e fino all’ultimo grado di giudizio, il tutto durato 10 lunghi anni. Una guerra talvolta impari che lascia a terra numerosi uomini a lui estremamente fedeli.
Paolo e Giovanni riescono a mettere in piedi un maxi processo datato ’86 che si svolgerà presso l’aula bunker di Palermo, costruita ad hoc per l’occasione. Mettono a segno un duro colpo ai Boss di Corleone, ai veri “Don” che in centinaia e, per la prima volta nella storia, vanno dietro le sbarre come lupi feriti. La Suprema Corte di Arnaldo Valente conferma gran parte delle pene inflitte in precedenza dal gruppo presieduto da Alfondo Pellegrino. Decine di ergastoli, migliaia gli anni di detenzione e per la folta rappresentanza di “uomini d’onore”, tra questi personaggi del calibro di Pippo Calò (ritenuto il cassiere) e Michele Greco detto il Papa, non v’è nulla da fare.
Nel frattempo (1988) avviene il famoso strappo con il CSM, che in un voto notturno piuttosto concitato, preferirà (inaspettatamente) Antonino Meli a Giovanni Falcone, nella carica che aveva lasciato pochi giorni prima Caponnetto. Un duro colpo per l’amico Borsellino. Una sofferenza che lui, più del diretto interessato, considererà un grave tradimento. Tutta la collera di quel gesto infelice (ed imperdonabile) da parte dei 14 magistrati a sfavore sfocerà nell’ultimo discorso denominato i “giorni di Giuda”, per alcuni dimenticato ma che in realtà è molto importante a livello storico poiché serve per capire tante, forse troppe cose. Una tra queste, il clima di “veleno” in cui erano costretti ad operare i due eroi.
Intanto, fuori dai penitenziari, le “belve” in stato di libertà ma ricercate in tutta la Penisola non perdoneranno tale affronto. I maggiori esponenti quali Aglieri, Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e molti altri al comando di altrettanti “mandamenti” decidono per la via più eclatante. C’è da colpire pubblicamente e in forma cruenta e devastante. E’ il momento della vendetta! Dopo Salvo Lima, il politicante compiacente, ritenuto il Re del “sacco” di Palermo e reo di aver promesso facile risoluzione in Cassazione, a maggio, è il turno dei mille kg di tritolo a Capaci, per colpire Giovanni Falcone di rientro da Roma. 57 giorni dopo, in via Mariano d’Amelio, nel cuore di Palermo l’atto finale, l’epilogo più amaro. Alle ore 16:59 del 19 luglio 1992 un’autobomba uccide Paolo Borsellino e 5 agenti della sua scorta. Da allora, sui mandanti di quella strage, solo silenzio.
Mai dimenticare cosa disse ai cronisti Antonino Caponnetto, accorso a via D’Amelio poco dopo la tragedia. Le sue ultime parole, con voce spezzata dalla commozione, ancora risuonano alte e significative, oggi più che mai: “E’ finito tutto…”.
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