Roma – Battuta ancora una volta la rappresentanza di genere. Non passano alla Camera le quote rosa per un’eguale ripartizione dei sessi nella rappresentanza parlamentare e, mentre infiamma ancora il dibattito su quale sia il metodo giusto per tutelare la presenza femminile nelle istituzioni, c’è già chi auspica che “al Senato si facciano cambiamenti”. È la deputata Alessia Mosca, eletta alla camera con il Pd e forte di un’esperienza nelle politiche Ue che le è valsa una ormai quasi certa candidatura alle prossime europee, ideatrice insieme alla collega Pdl Lella Golfo della legge 120/2011, per le quote di genere nei consigli di amministrazione, e prima firmataria della proposta di legge sullo smart working presentata lo scorso 29 gennaio.
Mentre la legge Golfo-Mosca è stata approvata dalle Camere e sta dando già i primi risultati nei cda, lo stesso principio fatica ad affermarsi in Parlamento. Per quale motivo questa differenza?
“La diversità nasce da due fattori. In primo luogo c’è una differenza di percezione tra le due situazioni e poi, soprattutto, non si può dimenticare come la norma sui cda avesse già in se stessa alcune peculiarità che l’hanno resa maggiormente digeribile”.
A vederla dal di fuori, sembrerebbe che i parlamentari accettino le quote rosa solamente finché rimangono nei cda e le ostacolino, invece, quando si tratta di farle entrare in Parlamento.
“In realtà non è stato facile nemmeno far approvare la legge 120/2011. Abbiamo fatto una fatica pazzesca e, ad oggi, posso dire che siamo riusciti ad approvarla anche perché durante la prima lettura alla Camera non ha avuto un risalto così forte e, di conseguenza, è passata più in sordina. Al Senato, invece, è cresciuta l’onda mediatica”.
Al di là delle dichiarazioni pubbliche, quale atteggiamento avete riscontrato in privato da parte dei colleghi uomini? Si è trattato di un no a priori o ci sono stati tentativi di confronto?
“Abbiamo registrato atteggiamenti diversi, non credo che tutti gli uomini abbiano votato contro, anzi alcuni si sono espressi a favore. Il fatto è che in questa circostanza non si trattava solo di quote di genere, la questione si è intrecciata ad altre ragioni legate al momento storico e a questa sorta di compromesso dal quale nasce la riforma elettorale. Sono entrate in capo altre logiche, c’era chi diceva che cercavamo una scusa per mettere in discussione tutto l’impianto dell’accordo elettorale e forse, per alcuni, è stato così. Non sarebbe corretto dire che sono stati solamente gli uomini a non volere la rappresentanza di genere”.
La proposta di legge sullo smart working rischia di scontrarsi con gli stessi limiti?
“Lo smart working nasce per aiutare tutti i lavoratori. Non abbiamo proposto la legge sullo smart working solo come antidoto alle difficoltà delle donne e sarebbe riduttivo interpretarla così, anche se può aiutare il tema della conciliazione che oggi è prevalentemente femminile. Vogliamo modificare la flessibilità oraria e usare le nuove tecnologie per rendere più facile la vita dei lavoratori, sarebbe un grimaldello per modificare l’attuale cultura secondo la quale si viene valutati solamente in base alle ore lavorate e non alla qualità di queste. Lo smart working permetterebbe solo per alcuni periodi di tempo e per alcune funzioni, la possibilità di auto organizzare orari e spazi del proprio lavoro e potrebbe essere applicato a circa il 40 per cento di tutte le mansioni. Sarebbe una fallimento se questa legge fosse considerata solamente per le donne”.
L’Italia è pronta?
“Credo di sì. Devo dire che la nostra proposta è entrata quasi come un coltello nel burro di una società che vuole progredire. Certo, è possibile che si incontrino forti resistenze da parte di chi è ancorato ai vecchi modelli ma, per il tipo di interesse che questa proposta ha sollevato, credo che il Paese sia pronto”.
Insieme alla rappresentanza femminile, anche quella estera potrebbe essere toccata dalla riforma elettorale. In base alla sua esperienza nei rapporti internazionali, ritiene utile l’esistenza della circoscrizione estero?
“E’ una questione che, a mio avviso, presenta realtà diverse. Un conto è la ripartizione europea, dove esistono colleghi eletti che sono pienamente addentrati nelle dinamiche italiane poiché parte di uno spazio comune e completamente partecipi anche delle vicende interne. Un discorso a parte, invece, meritano le circoscrizioni più lontane come ad esempio il Sud America o l’Australia. In questi casi ritengo necessaria una maggiore riflessione, ma non mi sono mai occupata in maniera specifica di questo settore e quindi, in questo momento, non posso indicare la soluzione più efficace per attribuire comunque la giusta rappresentanza a tutti i paesi. Penso che sia doveroso dare voce anche a chi è lontano ma bisogna, allo stesso tempo, evitare rappresentanti che dimostrino una distanza non solo chilometrica ma anche culturale. Per questo motivo credo opportuno fare due discorsi diversi tra l’Europa e i continenti più lontani. Ripeto, non ho la soluzione ma credo sia giusto porsi il problema”.
Lei è capogruppo Pd nella commissione Politiche europee, un argomento che ha approfondito anche in diversi articoli e nel volume del 2006 ‘Europa senza prospettive?’. I livelli che sta raggiungendo il sentimento ‘antieuro’ e ‘anti Europa’ al quale si ispira ora Fratelli d’Italia, unendosi alla Lega, sono allarmanti, in vista delle prossime elezioni?
“Il sentimento di ‘anti Europa’ esiste ed è molto diffuso anche in altri paesi. Alcuni partiti lo cavalcano auspicando politiche autarchiche ormai fuori tempo, che sono smentite anche dallo stesso andamento della società e dell’economia. Il sentimento invece più diffuso mi sembra quello di chi pensa che non possiamo stare da soli ma, allo stesso tempo, che non possiamo stare in un’Europa di questo tipo. Se vogliamo che questa Europa torni ad essere quella speranza per i popoli che era alle origini, bisogna modificare alcune sue politiche e aggiustare alcuni aspetti”.
Quali aspetti, in particolare?
“Sicuramente, fino ad oggi, le politiche hanno dato troppo seguito e attenzione al fatto che si seguissero determinati parametri economici e regole di bilancio senza ricordarsi di potenziare, invece, gli strumenti che avrebbero potuto potenziare lo sviluppo. Servono politiche che, pur senza modificare i trattati già esistenti, darebbero quello stimolo adesso necessario alla crescita come, ad esempio, gli investimenti nelle grandi infrastrutture e un maggiore finanziamento a livello europeo. Non credo che i singoli stati debbano sperperare risorse senza un minimo controllo, altrimenti ci troveremmo davanti a esplosioni di debito pubblico come negli anni ’80, ma ritengo giusto che ci venga data la possibilità di spendere per investire in ricerca, infrastrutture e industria delle pmi. Solo in questo modo si possono creare le condizioni per un ritorno a quella crescita che, da troppo tempo, manca nel nostro continente e soprattutto nel nostro Paese”.
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