“Oh Italia, Itaca mia, preda di quei Proci che, seduti su comode poltrone, banchettano su un decadente desco, utilizzando il tricolore come tovaglia e il nostro voto come pietanza. Oh amata Italia, Itaca del mio peregrinare, non siamo riusciti a rivoluzionarti. Ti ho amata e ho lottato per te, ho aspettato che cambiassi, che da schiava dei vertici tornassi a essere serva del popolo e restituissi un margine di speranza a chi, come me, ambiva solamente a un lavoro dignitoso. Oh Italia amata, Itaca delle mie radici, ho atteso e ho creduto che fossi in grado, un domani, di offrirmi uno stipendio equo. Non una carriera brillante a tutti i costi, ma solamente la giusta ricompensa per gli anni di studio universitario, il meritato ruolo per quella laurea con lode.
Non ti chiedevo poi molto. Mi bastava lavorare nell’ombra. Non avevo bisogno di splendere, mi sarei accontentato di svegliarmi ogni mattina per occuparmi delle attività per le quali avevo studiato, di ciò che mi appassionava, di tutto quello che i professori mi avevano fatto amare. Oh amata Italia, Itaca della mia Odissea moderna, non sai quanto mi manchi, ora che sono a Londra e tu sei così lontana, ora che sono espatriato in cerca di una prospettiva, di un futuro, così come altri duecentomila italiani scappati da un’implosione economica che sta lasciando dietro di noi le macerie di una guerra.
Anzi, al contrario. Il problema è che le macerie sono davanti a noi.
Tutti ripetono che la mobilità è un fatto positivo, che è bello viaggiare per lavoro. È vero, è bello. È molto bello. È bello quando scegli di farlo, quando sai che sarà per un periodo. O anche quando credi che sarà per sempre, ma per una tua volontà. È molto triste, invece, scappare fuori dai propri confini, costruirsi una carriera da rifugiato, ricevere riconoscimenti e ricompense e sapere che tutto questo, a casa tua, non lo avresti mai avuto.
A ogni traguardo raggiunto, sentire un sapore amaro in bocca e pensare con astio a quel paese che non ti avrebbe mai permesso di fare altrettanto, a quel paese che ha investito sulla tua formazione per poi lasciarti andare, a quel paese che ha scommesso su di te per poi permettere che della tua istruzione ne beneficiasse un’altra nazione ben più lungimirante. E, per questo, più ricca.
Sono arrivato a Londra meno di un anno fa. In tasca avevo solamente la mia laurea in Ingegneria e un passato da ‘operatore call center inbound’, un lavoro che avevo accettato dopo aver perso quello come ricercatore presso il centro dell’ateneo dove avevo studiato. Erano stati tagliati i fondi, non potevo più rimanere, ‘nemmeno con quel contratto a seicento euro mensili per un full time’ mi aveva spiegato il mio professore con una pacca sulla spalla, lo stesso che aveva preso il mio brevetto per un’innovativa modalità di depurazione delle acque e lo aveva depositato a suo nome.
Dopo cinque mesi di call center passati a rispondere a clienti esasperati quasi quanto me, ho deciso di andarmene. Dicono tutti che i giovani di oggi non hanno voglia di far nulla, che vogliono il ‘posto comodo’. Non è vero, anzi. Ho preferito lasciare la mia scrivania e il mio ruolo nel call center, dove avevo un contratto e una retribuzione migliore che al centro di ricerca, e prenotare un volo, prendere il volo, destinazione Londra, la meta più ambita dai giovani italiani che, negli ultimi due anni, l’hanno letteralmente presa d’assalto.
Mi si sono reso conto ben presto di non essere l’unico figlio d’Italia che aveva cercato riparo oltremanica. Ovunque andassi, anche in fila al supermercato, sentivo parlare italiano e non tardai a farmi delle amicizie, soprattutto nel centro di ricerca dove sono stato assunto a un mese dal mio arrivo all’ombra del Big Bang.
Qui siamo in tanti, italiani e non, siamo quasi tutti ‘stranieri’, ossia non inglesi e spesso non europei, ma a nessuno importa dove siamo nati o di chi siamo figli, se abbiamo le giuste conoscenze e le opportune amicizie. Le persone con le quali lavoriamo guardano solamente che cosa sappiamo fare e come lo facciamo. Per questo tanti connazionali hanno deciso di fermarsi in questo paese, qui è tutto più facile, nessuno ti chiede da dove vieni ma solo dove vai.
Parlo spesso di tutto questo con il mio amico Nicola che, prima di stabilizzarsi in Gran Bretagna, ha vissuto anche in Australia, in Olanda e in Germania e ha sempre pronto un aneddoto da raccontare sulle usanze di ogni nazione. Tutte le volte in cui ha deciso di cambiare paese, ha lasciato il posto che aveva e ne ha trovato in poco tempo un altro. Questa è la vera mobilità, è muoversi andando incontro a nuove prospettive, sconosciute, certo, ma proiettate verso un futuro in progressione.
Gli italiani espatriati nel Regno Unito sono 500mila. A quanto mi risulta, solo negli ultimi mesi si sono iscritti presso il consolato italiano di Londra circa 235mila connazionali. Numeri che puntano il dito contro l’emorragia di giovani innescata dalla scellerata mentalità del Bel Paese, dove gli stipendi diventano sempre più bassi, così come le possibilità di crescita professionale. Oh Italia, mia amata Itaca, perché permetti che ci innamoriamo di te se poi lasci che scappiamo via da te…”.
“Ulisse Mancini! Ulisse Mancini, please, go on stage to receive the Research Award 2015”…
Ulisse si svegliò dal flusso di pensieri nei quali si era perso e che lo avevano allontanato dalla cerimonia alla quale stava assistendo, in attesa di salire sul palco come protagonista. Il giovane ingegnere, ex inbound, era tra i ricercatori premiati quell’anno per i particolari meriti dei suoi studi condotti nell’ambito della depurazione delle acque.
Lo stavano chiamando al microfono, era invitato a ricevere la targa e a salutare il pubblico con qualche parola di ringraziamento. Si alzò e cominciò a camminare verso la giuria, accompagnato da quel sapore amaro in bocca che ormai conosceva così bene, per accettare quell’ennesimo premio da riporre nel suo ufficio a South Kensington dove viveva ormai da un anno, ossia da quando si era trasferito a Londra scappando da Roma con la promessa – o la speranza – di tornare presto.
Salì sul palco e guardò il pubblico, prima di leggere il discorso che aveva preparato e che avrebbe pronunciato nel solito inglese impeccabile. Fissò a lungo lo sguardo tra la folla seduta che lo applaudiva, osservò oltre quella stessa folla, verso la porta e al di fuori della porta. Cercava un volto amico, qualcuno che, come lui, ricevendo quel premio si sentisse un rifugiato e non un vincitore.
Incrociò lo sguardo di Nicola, il suo amico che aveva vissuto in Australia, Olanda e Germania. Si guardarono per un secondo e, persi tra gli applausi e i sorrisi, compresero che stavano pensando la stessa cosa. Avrebbero mai potuto rinunciare a tutto questo, a tutti i meritati riconoscimenti, per tornare nella madre patria a lottare di nuovo per lei, a cercare di salvare quel che di buono c’era in lei?
No, non lo avrebbero mai fatto. L’amaro in bocca aveva pur sempre un sapore più sopportabile delle umiliazioni. Ulisse sospirò. Itaca era sempre più lontana.
(Ndr. la storia non rappresenta un fatto realmente accaduto ma un racconto di fantasia, finalizzato a offrire ai lettori un’allegoria della condizione vissuta da tante giovani eccellenze italiane residenti all’estero)
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