Votato a larga maggioranza da 256 senatori e 480 deputati, il decreto legislativo numero 235 del 31 dicembre 2012 – anche detto «legge Severino», dal nome del Ministro che l’ha formulato – è oggi più che mai motivo di discussione tra politici, giornalisti e costituzionalisti. In vigore dal gennaio di quest’anno, ha avuto 37 casi d’applicazione a livello amministrativo – 17 dei quali a livello regionale –; e verte principalmente sulle misure istituzionali da adottare nei casi di sentenze definitive di condanna per delitti non colposi. La disposizione che interessa la Giunta elezioni e immunità, che in queste ore lavora per decidere se sia giusto epurare Silvio Berlusconi dal Senato della Repubblica, è quella che concerne l’«incandidabilità, anche sopravvenuta, per coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione» (Berlusconi è stato condannato a quattro anni, tre dei quali coperti dall’indulto).
Il punto nevralgico intorno a cui muove la difensiva del Pdl è quello che nega alla norma un carattere penale: ragione che escluderebbe la retroattività, essendo i fatti che coinvolgono l’ex premier risalenti ad un tempo precedente l’entrata in vigore della legge. A tale proposito si sono espressi autorevoli esponenti politici e giuristi: «A mio parere occorre applicare l’articolo 11 delle preleggi che fissa il principio generale secondo cui la legge dispone solo per il futuro, a meno che lo stesso legislatore – esplicitamente o implicitamente – non l’abbia considerata retroattiva», dice l’ex vice-ministro alla Giustizia, Salvatore Mazzamuto; «Anche per le sanzioni amministrative la retroattività è preclusa dall’articolo 1 della legge 689/1981», conferma il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio.
Pochissimi giorni fa, sulle colonne del Corriere della Sera, Michele Ainis – esperto costituzionalista e docente ordinario di diritto pubblico all’Università degli Studi di Roma III – è caduto in una svista tecnica, facendo valere l’ipotesi secondo cui l’incostituzionalità della legge Severino si paleserebbe in riferimento all’art. 48 della Costituzione, che pure parla della tutela degli elettori, e delle limitazioni del diritto di voto. A questa inesattezza mi sono sentito di rispondere inviando una lettera al giornale: “Nell’articolo «Partita aperta sulla decadenza» uscito sul Corriere sabato 7 settembre, Michele Ainis faceva erroneamente rilevare che la «norma costituzionale di riferimento» in merito alla presunta incostituzionalità della legge Severino sarebbe non già l’art. 65 Cost. là dove si parla di ineleggibilità e incompatibilità – in virtù del fatto, scrive Ainis, che la suddetta legge fa leva su un altro fattore: l’incandidabilità –, ma piuttosto l’art. 48 Cost. «laddove si contempla la perdita dei diritti elettorali nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». Il dottor Ainis confonde il contenuto di tale disposizione, dimenticando che l’art. 48 si esprime circa la situazione attiva consistente nell’esercizio del diritto di voto; e non pone alcun riguardo, come risulta altrimenti dall’articolo del Corriere, ai requisiti (passivi) di candidabilità, ovvero – cito Ainis – «ai requisiti per essere votati in Parlamento»”.
A detrimento dei due «pilastri di garanzia» appena valutati – irretroattività e incostituzionalità –, che renderebbero inapplicabile una legge peraltro risalente a pochi mesi fa, con l’inequivocabile responsabilità dei politici che ci rappresentano, potrebbe essere funzionale ricorrere, per interpretarla, alla volontà teleologica del legislatore. E’ infatti innegabile che la ratio della «legge Severino» fosse quella di estromettere dal Parlamento tutti coloro che avessero conseguito una condanna passata in giudicato; che oggi si tenti di renderla inattuabile, per motivi squisitamente politici, facendo leva su tali pilastri, è tanto legittimo quanto eccepibile.
Questa è solo parte della vita travagliata di una legge che finirà a Strasburgo, sotto la supervisione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il ricorso è stato già presentato e firmato dallo stesso Silvio Berlusconi, che chiede la condanna dello Stato italiano per la violazione degli artt. 3, 7 e 13 della Convenzione, in virtù del principio «nulla poena sine lege».
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