Washington – Il conto alla rovescia delle elezioni è incominciato: la notte tra martedì e mercoledì venturi l’Europa saprà se il presidente sarà ancora Obama, o se sarà il repubblicano Romney. L’esito del voto è tanto incerto quanto quello del 2000, quando George W. Bush fu sconfitto dal voto popolare, ma conquistò la maggioranza dei Grandi elettori, i 535 misteriosi leader a cui la Costituzione riserva la scelta del capo dello stato e del governo (si tratta di politici e personalità eminenti tenuti a votare come ha votato lo stato che rappresentano). Sui media c’è chi prevede un risultato di parità, 267 grandi elettori per parte e 1 astenuto, ma ci pare una assurdità. La suspense creata dai sondaggi potrebbe svanire nei prossimi giorni. E perché? Perché gli indecisi e gli scontenti, che sono in grande numero, non diserteranno le urne in massa, al contrario di quanto appena accaduto in Sicilia. Una parte voterà e l’affluenza degli elettori supererà di certo il 50 per cento, che in Italia è poco ma in America è la media storica, salva qualche eccezione. Forse ci sbagliamo, ma continuiamo a credere che Obama riceverà un secondo mandato, sia pure di stretta misura. Tra i motivi della possibile rimonta del presidente, tre destano attenzione. Il vantaggio di Romney nei sondaggi si è venuto assottigliando in seguito alle gaffes del candidato repubblicano. L’uragano Sandy ha dimostrato che nelle emergenze Obama è un buon manager, mentre nel 2005 l’uragano Katrina che devastò New Orleans dimostrò che Bush non lo era. E l’economia americana adesso è in graduale ripresa. Intendiamoci, se venisse eletto presidente Romney, che gioca sullo scontento popolare, non sarebbe un disastro epocale. Romney è meno europeista e più filo israeliano di Obama, ma non correrebbe pericolose avventure in politica estera. E anche in politica interna ed economica non andrebbe oltre certi limiti, pur favorendo gli evangelici e il capitale. Come governatore del Massachusetts il candidato repubblicano si dimostrò moderato e pragmatico, come presidente non sarebbe molto diverso. Ma sicuramente i ceti medio e basso americani si troverebbero peggio con lui che con Obama.
Obama deve sperare che gli ultimi giorni della campagna elettorale gli portino altre buone notizie economiche. Nel terzo trimestre dell’anno, il prodotto interno lordo americano è cresciuto del 2 per cento, leggermente più dell’1,80 per cento prefetto dalla maggioranza degli economisti. E’ un miglioramento netto rispetto all’estate: nel secondo trimestre dell’anno la crescita del Pil, ostacolata dalla siccità che danneggiò l’agricoltura, era stata infatti inferiore, appena l’1,3 per cento. La media annuale della crescita della economia americana sfiora adesso l’1,8 per cento, la stessa percentuale del 2011. I fattori che più la sorreggono sono un modesto rilancio dei consumi, la incipiente ripresa dell’attività immobiliare e il massimo aumento delle spese militari degli ultimi tre anni. Assieme col calo della disoccupazione al 7,8 per cento a settembre, potrebbe essere una buona notizia per Obama. Ma l’espansione economica in corso è la più lenta di quelle susseguitesi alle crisi degli ultimi decenni, ed è ben lontana da quanto anticipato dal presidente.
La differenza fondamentale tra Obama e Romney riguarda proprio l’economia. Romney è un finanziere conservatore e farebbe l’interesse di Wall street. Obama è un liberal riformatore e farebbe l’interesse della gente comune. Ce ne è voluta, ma finalmente gli economisti hanno scoperto che la concentrazione della ricchezza in sempre meno mani causa non soltanto squilibri sociali ma danneggia anche la ripresa economica. Economisti al di sopra di ogni sospetto, come Jonathan Ostry del Fondo monetario internazionale, Emanuel Saes della prestigiosa Università di Berkeley in California, Raghuram Rajan della Università di Chicago, il Nobel Joe Stiglitz e numerosi altri. Dalle loro ricerche risulta che l’impoverimento dei ceti medio e basso e l’arricchimento del ceto alto, un fenomeno che si riscontra in America e in Italia in misura quasi uguale, rallenta l’aumento del pil o prodotto interno lordo e la creazione dei posti di lavoro di un terzo circa. Sono campane a morto per le dottrine imperanti della “trickle down economy”, dei benefici a tutta la società dei privilegi dei più abbienti, e della deregolamentazione, l’autogestione dei mercati. Per l’Italia, sono anche un monito al governo Monti e ai partiti che di contenderanno le elezioni l’anno prossimo.
Secondo questi economisti, in prevalenza bipartisan, non di parte, l’eccessiva tassazione dei redditi da lavoro e quella troppo bassa dei guadagni da capitale è controproducente. In America, attualmente l’1 per cento dei più ricchi contribuenti intasca un sesto del reddito nazionale, ma non investe in maggioranza in attività produttive, specula invece in borsa. Jonathan del Fondo monetario è particolarmente critico del sistema fiscale e della politica sociale americani. La mancata ridistribuzione della ricchezza, afferma, si traduce in una più asfittica e instabile espansione economica. L’analisi del crac finanziario del 2008 conferma questa tesi. Dagli Anni settanta, il reddito del 90 per cento degli americani venne diminuendo, e per rimediarvi i governi e le banche allargarono troppo il credito. Dopo il disastro, governi e banche hanno adottato la strategia contraria, e oggi i consumi languono. La tendenza alla concentrazione della ricchezza in sempre meno mani va invertita, ma non vi è segno che ciò avvenga: negli ultimi dodici mesi, infatti, in America il 93 per cento dell’aumento del reddito è finito nelle tasche dell’1 per cento dei suoi Creso. L’Occidente rischia di chiudersi in un circolo vizioso, dice il Nobel Stiglitz: “Maggiore disuguaglianza significa minore sviluppo, e minore sviluppo significa maggiore disuguaglianza”. Per uscirne, occorre che da oggi la politica ridistribuisca la ricchezza, ossia che riformi il fisco, controlli e mercati a ripristini le politiche sociali. Saranno gli elettori americani il 6 novembre prossimo e quelli tedeschi e italiani nel 2013 a imporre o a vietare questa strada con il loro voto.
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