Dopo la tesa e paziente attesa, finalmente siamo riusciti ad assolvere alla massima espressione della democrazia, il voto. In questa occasione lo abbiamo fatto per rinnovare i Comites, una aspirazione varie volte rinviata, per la quale abbiamo atteso e sospirato troppi anni. Una dilazione che ci è stata imposta come una penitenza, dai successivi governi del Bel Paese, in una chiara dimostrazione dell’indifferenza che ci riservano come italiani all’estero.
Oggi, coi risultati alla vista, è tempo di considerazioni, del “giorno dopo”, su quel che ci ha lasciato questa contesa elettorale la quale, nel suo sviluppo, a partire dai vincitori e dagli sconfitti, ha offerto varie singolarità.
Nel plotone dei vincitori si è registrato il più che previsto contundente successo del MAIE, che è riuscito a imporsi in 8 circoscrizioni su 9. Nel lotto dei perdenti, ci sembra che i principali sconfitti sono stati i Comites come istituzione.
Infatti, un ente che nel momento della sua nascita suscitò un’enorme attesa, col passare degli anni subì un profondo deterioramento per varie ragioni, tra le quali la più significativa è stata quella di non aver ottenuto risultati concreti per le comunità.
Una assenza che ha definito un prima e un dopo a partire dal quale è diventato comune e generale qualificare i Comites come enti inefficienti, sterili e inefficaci, arrivando al giorno d’oggi a comprometterne il futuro. Questa cattiva immagine ha influito notevolmente nel ridurre la partecipazione dei cittadini al voto, come è dimostrato dal numero di voti emessi, assolutamente ridotto.
Anche se inizialmente avevamo immaginato che il processo elettorale sarebbe diventato un evento significativo per la nostra comunità, nei fatti le attese sono diventate delusione, approfondita dal momento in cui la convocazione stessa ha portato una inattesa novità: “l’inversione dell’opzione”, cioè l’obbligo di iscriversi previamente all’elenco elettorale per poter votare. Una innovazione che, non solo non ha stimolato la partecipazione, ma l’ha disincentivata.
L’altro scoglio venuto a galla, frutto dell’apatia generale, è stato la costituzione delle liste. Basti come esempio la circoscrizione di Buenos Aires, dove nel 2004 si presentarono ben nove liste, mentre per queste elezioni le liste sono state soltanto tre.
Un altro capitolo di questa storia si riferisce alla campagna elettorale. Se in altre occasioni è stata una festa, questa volta è diventata un parto con un finale poco felice. Infatti, portata avanti nella cornice di una austerità francescana, dove salvo l’eccezione di qualche mezzo di comunicazione, la maggior parte delle liste si è limitata all’uso delle reti sociali, cioè a costo zero. Sono mancati comizi o altri eventi pubblici, e men che meno dibattiti, quell’esercizio democratico che consente di mettere a confronto differenti idee, progetti e anche le personalità dei candidati.
Sembra evidente che, quanto è stato segnalato, costituisce uno scenario di desolazione per la sopravvivenza dei Comites, con alcuni cittadini che già intonano il Requiem in loro memoria.
Da parte nostra, consapevoli dell’importanza che possono assumere, necessari nella funzione di rappresentarci davanti alle autorità, cercheremo di nuotare controcorrente, per assegnare un voto di fiducia ai nuovi consiglieri dei nove Comites, una pattuglia costituita da un nutrito numero di giovani che, in armonia con i veterani, apporteranno freschezza a questi enti.
Avranno davanti un lavoro intenso e anche se hanno a disposizione i cinque anni del loro mandato, alla più breve scadenza dovrebbero far fare ai Comites un giro copernicano, proporre nuove strategie, programmi e obiettivi. In altre parole, si tratta di ribaltare un’immagine deteriore e fare dei Comites enti utili, una sorte di foro, di assemblea, di agorà, che, invece di limitarsi ad essere un ente consultivo, al servizio delle autorità consolari (che tra l’altro, spesso quando parlano “off de record” dimostrano poca simpatia per i Comitati), comincino a lavorare per assistere la comunità.
Al riguardo, ci viene da proporre, come prova di capacità e novità, che nei primi cento giorni sia convocata una conferenza stampa agli effetti di spiegare le misure prese e quelle da prendere, il programma da sviluppare. Il rito dei cento giorni è importante, perché è un modo di mostrare se una squadra è capace di gestire una transizione. Si tratta di una sfida per le nuove autorità alle quale proponiamo di tenere presente, come ha detto qualcuno, che da due cose non si torna mai indietro: dalle parole pronunciate e dall’opportunità persa.
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