Da molti decenni tutti gli analisti che seguono l’andamento delle elezioni presidenziali in Usa avvertono che la sfida tra i rappresentanti dei due partiti in gioco è sempre stata decisa da valutazioni interne dell’ elettorato. Al tempo dell’attuale grande crisi economica ció è ancora piú vero nella sfida tra Barack Obama e Mitt Romney. Che alla vigilia del V-Day, per quanto riguarda la politica estera, sembrano lontanissimi soprattutto a parole. Perche’ oggi, come dalla fine della guerra in Vietnam, politica estera significa essenzialmente Medio Oriente, inteso nell’accezione spazialmente piú ampia, che sconfina in aree geograficamente contigue come Afghanistan, Maghreb e Sahel. Forse quattro anni fa, quando fu eletto il democratico e primo inquilino afroamericano della Casa Bianca, molti – riprendendo una classica contrapposizione – pensarono che avesse vinto la ‘colomba’ Obama. E anche ora non manca chi quella dicotomia la tiene in piedi, paventando o augurandosi che il presidente in carica sia battuto dal ‘falco’ Romney.
Ma come hanno dimostrato gli sconvolgimenti avvenuti durante il mandato di Obama, la complessità del quadro geopolitico mediorientale difficilmente consentira’ agli Usa di seguire una linea di coerenza coi rispettivi orientamenti dei candidati.
Poco dopo la sua elezione, Obama – con una punta di ingenuita’ – aveva annunciato di voler avviare un nuovo corso col mondo arabo e in genere musulmano, auspicando anche progetti di cooperazione con paesi ben lontani dalle potenze petrolifere (soprattutto Arabia Saudita, Bahrain e Kuwait) con le quali l’America, pur sentendosene lontana anni luce, è legata da rapporti energetici cosi’ stretti da potersi definire ‘ineluttabili’; almeno sino a che qualche ‘primavera araba’ non giungesse a cambiare anche quell’unica certezza nel variegato mosaico della regione.
Ben presto peró sono naufragate le speranze di apertura verso mondi nell’orbita islamica, dai quali si sperava di innescare anche un positivo effetto domino, che potesse scavare il terreno sotto i piedi ai cosiddetti ‘regimi canaglia’. Il perdurare della crisi ha costretto Obama a mantenersi al di sotto delle promesse ventilate o addirittura annunciate, mentre il mondo islamico ha acuito la sua avversione per lo stile di vita occidentale. Cio’ e’ stato confermato dai recenti attacchi agli Usa in paesi che hanno visto una stagione forse precipitosamente definita ‘primavera’. Anche di fronte all’espansione di Al Qaida in Sahel e nel Maghreb la ‘colomba’ ha dovuto abbandonare il ramoscello di ulivo e sfoderare – almeno nelle parole – rostri da rapace. Romney, a sua volta, benche’ sbilanciato molto piú a favore degli interessi occidentali e della ‘promozione della democrazia’, è difficile che – se eletto – vorrebbe rischiare una potenziale catastrofe politica, concorrendo a scatenare un nuovo conflitto nell’area. Che dato il peso dei due possibili contendenti, Israele e l’Iran, potrebbe espandersi oltre gli scenari regionali, con esiti del tutto imprevedibili. Per questo, se un prossimo intervento armato degli Usa ci sara’ e’ probabile che si limiti ad accelerare la fine del regime siriano. E di questo anche i ‘falchi’ veri, come una parte del governo israeliano o dei teocrati di Teheran, dovranno farsene, per motivi opposti, una ragione. Che ci sia il democratico Obama o il repubblicano ‘hardliner’ Romney.
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