Durante i lavori dell’ultima Plenaria del CGIE, mi ha molto colpito e negativamente l’intervento del Parlamentare della Lega Nord Claudio D’Amico, di Milano, ma emigrato al Parlamento di Roma.
Il parlamentare padano, probabilmente pensando di ricevere un’ovazione, o più semplicemente ignorando la memoria storica dell’Italia, ha messo in contrapposizione gli emigrati italiani con gli immigrati in Italia. Ha spiegato che lo Stato italiano deve “fare delle scelte”, perché attualmente non riesce più a pagare l’assistenza medica ai nostri connazionali in Venezuela, quindi non dovrebbe garantire l’assistenza agli immigrati che arrivano nel nostro Paese. Praticamente come se fosse automatico che evitando di assistere un immigrato con le cure mediche, i soldi risparmiati si potrebbero investire per gli italiani all’estero.
A questa teoria assurda e antistorica ha risposto il consigliere Norberto Lombardi, ricordando come l’on. avesse pronunciato quelle parole davanti ai rappresentanti di una storia e di un popolo che ha riempito i mari, gli oceani, le miniere e i cantieri di tutto il mondo di morti italiani, emigrati per mantenere le proprie famiglie, cercarsi un futuro e fare grande il nostro Paese.
L’on. D’Amico non si è accorto nemmeno dopo l’intervento di Lombardi di aver offeso e, praticamente, ucciso ancora e definitivamente quegli italiani (anche clandestini) morti in ogni angolo del mondo e che rappresentano la nostra storia patria. Perché ne ha ucciso la memoria e vanificato il sacrificio. Per questo, molto umilmente, con animo sereno e senza spirito polemico, mi piacerebbe consigliare all’on. D’Amico la lettura di un grande padano come lui, Gianni Rodari (originario della Lombardia con famiglia “emigrata” in Piemonte). In particolare di quella amarissima quanto struggente ed educativa favola de “Il muratore della Valtellina”, della sua stessa regione.
Un giovane della Valtellina, non trovando lavoro in Patria, emigrò in Germania, e proprio a Berlino trovò un posto in un cantiere come muratore. Mario – così si chiamava il giovane – ne fu molto contento: lavorava sodo, mangiava poco, e quel che guadagnava lo metteva da parte per sposarsi. Un giorno però, mentre si stavano gettando le fondamenta di un palazzo nuovo, un ponte crollò, Mario cadde nella gettata di cemento armato, morì, e non fu possibile recuperare il suo corpo. Mario era morto, ma non sentiva alcun dolore. Era chiuso in uno dei pilastri della casa in costruzione, e ci stava un po’ stretto, ma a parte questo pensava e sentiva come prima. Quando si fu abituato alla sua nuova situazione, poté perfino aprire gli occhi e guardare la casa che cresceva intorno a lui. Era proprio come se fosse lui a reggere il peso del nuovo edificio, e questo compensava la tristezza di non poter più dare notizie di sé a casa, alla povera fidanzata.
Nascosto nel muro, nel cuore del muro, nessuno poteva vederlo o almeno sospettare che fosse lì, ma questo a Mario non importava. La casa crebbe fino al tetto, furono collocate al loro posto porte e finestre, gli appartamenti vennero venduti e comperati, e popolati di mobili, e da ultimo vennero ad abitare numerose famiglie. Mario le conobbe tutte, dai grandi ai piccini. Quando i bambini zampettavano sul pavimento, studiando i loro primi passi, gli facevano il solletico alla mano. Quando le ragazze uscivano sui balconi o si affacciavano alle finestre per vedere passare i loro innamorati, Mario sentiva contro la propria guancia il morbido fruscio dei loro capelli biondi. Di sera udiva i discorsi delle famiglie radunate intorno alla tavola, di notte i colpi di tosse degli ammalati, prima dell’alba il trillo della sveglia di un fornaio che era il primo ad alzarsi. La vita della casa era la vita di Mario, le gioie della casa, piano per piano, e i suoi dolori, stanza per stanza, erano le sue gioie e i suoi dolori.
Ed ecco che un giorno scoppiò la guerra. Cominciarono i bombardamenti su tutta la città e Mario sentì che anche per lui si avvicinava la fine. Una bomba colpì la casa e la fece crollare al suolo. Non rimase che un mucchio di macerie, di mobili infranti, di suppellettili schiacchiate sotto cui dormivano per sempre donne e bambini sorpresi nel sonno.
Fu soltanto allora che Mario morì davvero, perché era morta la casa nata dal suo sacrificio.
Io credo, onorevole D’Amico, che le sue parole nella sala delle conferenze internazionali della Farnesina, hanno avuto per gli emigrati italiani e le loro storie personali e collettive lo stesso effetto della guerra nella favola del suo conterraneo Gianni Rodari.
*responsabile Pd Mondo
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