Comites? Organismi superati. Questo è il parere del Coordinamento Affari esteri della Uil, che in un comunicato commenta il rinvio (l’ennesimo!) del rinnovo dei Comitati; rinvio avvenuto “in corsa”, e che cambia di fatto le regole del gioco a partita iniziata.
Indette per il dicembre del 2014 e poi rimandate all’aprile del 2015, le elezioni dei Comites oggi più che mai rappresentano da una parte l’incapacità di un governo a gestire le questioni legate agli italiani nel mondo, dall’altra il disinteresse dei connazionali nei confronti di organismi che forse in passato hanno svolto un ruolo importante ma che oggi appaiono appassiti.
Scrive la Uil: “Ipotizzavamo già che l’andamento delle adesioni sarebbe stato fiacco. Molte sedi ci avevano fornito da tempo indicazioni la cui lettura non si prestava ad equivoci: poche o punto le liste presentate, tasso di partecipazione con cifre risibili, nonostante la mobilitazione della macchina e il personale dei nostri consolati a disposizione anche di sabato e di domenica. Stiamo parlando di un tasso che non raggiungerebbe il 3% degli aventi diritto!”.
Ed ecco allora le considerazioni targate Uil: “La nuova modalità di determinazione dei votanti. Chi si iscrive (e solo chi si iscrive), riceve il plico e vota: era ora! Questo sistema andrebbe esteso anche a tutte le altre consultazioni elettorali, uscendo finalmente dall’equivoco che il corpo elettorale residente all’estero sia un soggetto incapace di intendere e volere, da proteggere al punto di recapitargli all’uscio, attraverso il costosissimo meccanismo del voto per corrispondenza, la scheda elettorale ed ostinandosi a non ammettere che anche la decisione di non partecipare e non andare a votare è manifestazione (democratica) di volontà (e coscienza) politica”.
Altra considerazione: “se il trend fosse confermato in primavera, con tassi di partecipazione inferiori al 5%, bisognerà cominciare a pensare all’utilità di uno strumento che non sembra rispondere più allo scopo della sua creazione. Diversamente, si rischia di conferire legittimità democratica ad organismi che ormai non rappresentano più alcuna rilevante componente delle nostre comunità espatriate. Certamente non le loro forze vive, che da quel mondo si tengono ben alla larga e che invece gli sforzi della politica e delle istituzioni nazionali (prime fra tutte il MAECI) dovrebbero tentare di intercettare e coinvolgere. Facendo convergere su queste forze tutte le risorse disponibili, non solo economiche ma anche progettuali. Una cosa è certa: sempre più sterile appare il ripetersi di riti e pratiche ormai superate da una realtà che corre sul filo delle generazioni e che ci dice che le collettività italiane non sono più le stesse e non vogliono più essere identificate come perennemente eguali a se stesse”.
Infine, “il fallimento annunciato di questa ‘consultazione elettorale’ sembra sottolineare proprio questo: è giunto il momento di dire basta agli stereotipi, ormai stucchevolmente di maniera, degli italiani all’estero. Nessuno discute il ruolo avuto dai Comites in passato, sia nel promuovere la partecipazione e la solidarietà in seno alle varie collettività, sia nel democratizzare i processi decisionali. Oggi, però, occorre cominciare ad interrogarsi su dove, come e quali siano davvero gli italiani all’estero, quali circuiti essi frequentino, cosa facciano quelli che non stanno nelle associazioni e quali siano i loro reali interessi, quale il livello del loro inserimento nei tessuti sociali dei paesi di residenza, il tipo di legame che li tiene (ancora e non artificiosamente) uniti alla madrepatria. Bisogna partire dalla risposta a queste domande per proporre forme nuove e credibili di coinvolgimento che non possono più attendere, se non si vuole perdere la straordinaria occasione, che solo l’Italia ha in queste proporzioni, rappresentata da milioni di connazionali che vivono oltre i suoi confini nazionali. Una risorsa il cui potenziale attende solo di essere adeguatamente valorizzato”.
Conclusione: “quanto serve, se serve (e a chi?), la triplicazione dei livelli di rappresentanza (comites, CGIE, Parlamentari eletti all’estero) delle nostre collettività espatriate? Prima di qualsiasi istintiva risposta, la considerazione da fare è di tipo culturale: il concetto di comunità italiana all’estero, come concetto unitario, appare definitivamente superato. Forse, si potrebbe piuttosto cominciare a parlare di italiani all’estero, di singole individualità più interessate all’interazione con i locali, più emancipate rispetto alla terra di provenienza, già culturalmente pronte ad integrarsi piuttosto che a difendersi e perpetuarsi, capaci – a dispetto di tanti fanatici della globalizzazione – di mantenere saldi i legami linguistici, culturali, identitari di provenienza senza rinunciare ad assimilare le nuove coordinate della cultura di destinazione o approdo. Occorre fare quindi uno sforzo di comprensione più approfondito e ripensare la definizione stessa di collettività italiana all’estero, partendo da una denuncia onesta dei limiti della sua attuale nozione. Una nozione superata, ormai anche concettualmente, dalla storia”.
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