Verso la fine degli anni ‘60 del secolo scorso la popolazione mondiale era di poco più di due miliardi di persone, negli anni ’90 era già arrivata a cinque miliardi e 300 milioni e oggi abbiano da poco superato gli otto miliardi.
Secondo alcuni demografi, gli umani continueranno a crescere fino a diventare circa dieci miliardi entro il 2100 (Detto per inciso, forse anche i fanatici che attribuiscono alla CO2 e agli allevamenti di bestiame la causa del cambiamento climatico perché non parlano di controllo delle nascite? Possibile che, per loro, l’aumento della popolazione non causi alcun effetto?).
La crescita del genere umano non è però omogenea sul pianeta poiché le Americhe, l’Europa e l’Asia, hanno, seppur in maniera diversa, cominciato una costante decrescita: l’attuale maggiore responsabile dell’enorme crescita della popolazione è il continente africano.
Meno di 50 anni fa l’Africa era popolata da poco più di 750 milioni di unità mentre oggi ce ne sono un miliardo e 300 milioni. La più accreditata previsione è che attorno al 2050 gli africani saranno due miliardi. In altre parole, dopo quella data almeno uno ogni quattro abitanti della terra sarà originario di quel continente.
Se le cose stanno così, sarà ineluttabile dover assistere a un sempre maggior numero di migranti che dall’Africa si riverseranno verso il resto del pianeta durante tutto questo secolo.
E’ pur vero che molti osservatori ritengono che per poter mantenere il loro attuale livello di vita le zone ora più ricche e cioè l’Europa e le Americhe hanno bisogno di mediare l’invecchiamento della propria popolazione con l’arrivo di forze fresche in età lavorativa ma il problema è che né i demografi né gli economisti prendono in considerazione le conseguenze sociali delle migrazioni incontrollate.
Gli storici e i “benemeriti dell’accoglienza” ricordano che grandi flussi migratori sono sempre stati una costante nello sviluppo del genere umano e non dovremmo spaventarci.
Tuttavia, ciò che tutti i suddetti negligono o fingono di dimenticare è che quegli spostamenti di masse, ovunque siano avvenuti, hanno sempre provocato conseguenze nefaste per gli autoctoni.
Senza dover risalire fino a quando l’uomo di Neanderthal fu soppiantato definitivamente dall’Homo Sapiens che aveva invaso i suoi territori basta ricordare gli effetti, nel breve e nel medio termine, causati dalle invasioni barbariche nell’impero romano o, ancora più recentemente, il dilagare dell’Homo Europeensis nel Nord e nel Sud America o in Australia. Qualcuno ricorda come sia finita per chi vi abitava prima?
Pur accettando, quindi, che negli anni a venire i flussi migratori potrebbero essere quasi sicuramente inarrestabili, il minimo che politici responsabili debbono fare è cercare, in tutti i modi possibili, di disciplinare questi arrivi contingentandoli nel tempo, nel numero e nella loro distribuzione territoriale.
Uno degli aspetti incancellabili della natura umana è il bisogno di percepire una propria identità che si costruisce automaticamente assieme a chi si sente come “prossimo”.
Ogni volta che tale identità, fatta di storia, di cultura presente e passata e di abitudini quotidiane si trova attaccata e messa a rischio, nasce una spontanea reazione di rigetto nei confronti di chi vi attenta o sembra farlo.
Naturalmente, la necessità di sentirsi appartenente a un “gruppo” (uno Stato?, una lingua comune?, le consuetudini?, la religione?, altro?) non è solo degli autoctoni ma, quando ne ricorrono le circostanze, anche degli ultimi arrivati e, spesso, dei loro immediati discendenti.
Quando si parla di “integrazione” si intende che i nuovi arrivati accettino di diluire le proprie identità passate assorbendo gran parte (o tutta) l’identità collettiva di chi li ha accolti.
Quando ciò non avviene, gli autoctoni vivono sentimenti di rigetto verso i “diversi” e questi ultimi enfatizzano le loro “diversità” finendo con il trovarsi in contrapposizioni anche violente con i primi.
I problemi delle periferie e delle città inglesi, francesi e tedesche e i comportamenti delinquenziali di alte percentuali immigrati sono una dimostrazione che, in quei casi, l’integrazione non è avvenuta e al suo posto esiste uno scontro tra identità diverse.
Oggettivamente, ovunque sia possibile non avere forti concentrazioni di immigrati con culture molto diverse dalle autoctone e simili tra loro e il mantenimento di identità pregresse e contrapposte è più facilmente superato e l’integrazione diventa fattibile.
Riuscire da parte dei politici a contingentare i numeri, i tempi e razionalizzare i luoghi di accoglienza degli “stranieri” può addirittura far sì che l’incontro tra le culture diventi arricchente per tutti. Purtroppo, quando ciò non è possibile a causa di arrivi illegali e incontrollati, nasce una naturale, seppur non desiderabile, conflittualità sociale.
Ogni governo in Europa e negli Stati Uniti cerca da tempo, pur con scarsi successi, di controllare i numeri di chi vuole entrare nei confini senza seguire le trafile previste ufficialmente. Anche l’attuale governo italiano, guidato da Giorgia Meloni, sta cercando di intervenire sul fenomeno contemporaneamente con tre sistemi relativamente innovativi. Il primo, il cosiddetto “piano Mattei”, punterebbe ad aiutare lo sviluppo economico interno dei principali Paesi d’origine dei migranti in Africa, in modo da crearvi condizioni che incoraggino la permanenza anziché la partenza.
Purtroppo, anche se questo sistema funzionasse occorreranno anni, se non decenni, prima di ottenere effetti positivi. Inoltre, anche a causa dell’enorme natalità citata più sopra, pur se aumentasse la ricchezza generale di ogni Paese il prodotto nazionale lordo per abitante non potrà crescere.
Nello stesso momento il governo Meloni, così come fece qualcuno dei suoi predecessori, ha firmato accordi con i maggiori Paesi di transito dei flussi migratori affinché non si consenta loro di partire e, ove possibile, i potenziali clandestini vengano rimandate nel Paese di provenienza.
La terza misura presa dal Governo Meloni e apprezzata anche da altri Paesi europei è stata quella di aprire centri di raccolta di migranti irregolari in Albania e cioè in un Paese che non fa parte dell’Unione Europea.
Di là dall’effetto pratico immediato (considerati pochi numeri finora coinvolti) l’apertura di questo centro ha lo scopo di rimandare il più presto possibile nel loro Paese gli immigrati giudicati non autorizzati a rimanere all’interno dell’Unione Europea e impedire loro di continuare a rimanere illegalmente in Italia.
E’ risaputo che, ad oggi, i “non autorizzati” che ricevono un “foglio di via” continuano a permanere nel nostro Paese ma, essendo a tutti gli effetti “espulsi” non possono né lavorare né trovare casa. E’ quindi naturale per loro o ricorrere al lavoro nero o unirsi a bande delinquenziali.
Già per il fatto di esistere, i due centri aperti in Albania dovrebbero svolgere una funzione deterrente: chi vuole entrare illegalmente in Italia provenendo da Paesi giudicati “sicuri” deve sapere ancora prima di partire che non riuscirà a restare all’interno del territorio europeo e molto presto sarà rimandato indietro.
Purtroppo, come abbiamo dovuto constatare in Italia e in altri Paesi, esistono persone e lobbies che fanno di tutto per rendere vano ogni sforzo dei governi per cercare di disciplinare i flussi in arrivo.
A volte, tra costoro ci sono persone in buona fede, seppur disinteressati degli effetti negativi che i flussi incontrollati possono causare alla stabilità di una società. Si tratta spesso, in questo caso, di pseudo-idealisti di stampo religioso o politico che si gratificano dei loro buoni sentimenti fregandosene delle conseguenze spiacevoli per tutti gli altri concittadini.
Al loro fianco però, e sono molto più numerosi, ci sono tutti quelli che speculano per profitto personale sugli arrivi delle masse di (presunti) diseredati. Tutti sanno che il racket delle partenze verso l’Europa dalle coste africane e turche è un business immenso, ma quello che è meno citato dai media è il business di coloro che godono dei contributi statali per gestire l’accoglienza e il mantenimento dei clandestini.
Tra costoro c’è una gran quantità di varie onlus sedicenti “caritatevoli”, siano esse costituite con o senza scopo di lucro.
Alcune di loro, oltre ad ospitare gli irregolari grazie a ricche prebende statali, si sono anche dotate di sportelli dedicati alle richieste e ai successivi ricorsi contro il diniego di permessi di soggiorno.
Tra i tanti, oltre alla Caritas e a Save the Children, ci sono in prima fila i patronati creati dai sindacati CGIL e CISL.
Per dare un esempio di cosa succede, il solo TAR della Lombardia nel 2024 ha dovuto emettere ben 424 sentenze su ricorsi di immigrati che chiedevano la regolarizzazione del permesso di lavoro rifiutata dalla Prefettura poiché si trattava di lavori giudicati fittizi. E’ facile calcolare i costi per la collettività in termini di denaro e di intasamento dei tribunali.
Ciò che resta nell’ombra, perché raramente se ne parla, è il business degli “avvocati d’ufficio”. Dato che ai non abbienti (ed è automatico che un immigrato clandestino venga giudicato tale) lo stato prevede per legge il “gratuito patrocinio” è nata allora una casta di avvocati “specialisti” che vive e lucra proprio sul numero di questi ricorsi.
La prima sezione civile della Cassazione, quella che tratta il tema dell’immigrazione, tra dicembre e marzo ha dovuto emettere 12 sentenze, precedute dalle necessarie istruttorie, riguardante immigrati che, guarda caso, erano tutti patrocinati dallo stesso avvocato di Roma. Negli ultimi tre anni un altro avvocato ha tutelato da solo ben 291 ricorrenti. Per capire quanto valga economicamente la professione di quegli avvocati che “tutelano” i migranti irregolari basta sapere che nel 2023 lo stato ha pagato loro quasi 400 milioni di euro.
A questo business già florido è facile prevedere che gli stessi (o altri) avvocati inoltreranno nuovi ricorsi (e quindi nuovi costi per lo Stato) grazie alla recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che sancisce il diritto a un copioso risarcimento per i clandestini trattenuti sulla nave Diciotti per pochi giorni e non immediatamente sbarcati.
E’ facile immaginare, visto il precedente, quanti altri immigrati irregolari aiutati da onlus, patronati e avvocati “specializzati” chiederanno ricchi risarcimenti per non essere stati sbarcati immediatamente, magari nel porto da loro preferito.