Quella all’estero è una stampa che continua ad essere "a servizio" delle collettività, ma che non può più essere costretta a trattare di argomenti "d’altri tempi" né a vedersi precluso l’uso delle lingue locali che potrebbe far aumentare i lettori oltre che diffondere – se non la lingua – almeno la cultura italiana. Questo, in sintesi, quanto ribadito dai rappresentanti di 40 testate edite in 13 diversi Paesi dei quattro continenti che hanno risposto all’invito della Fusie che li ha chiamati a raccolta per riflettere sul futuro del settore.
“Il futuro della Stampa Italiana all’Estero e il sostegno pubblico” il titolo dato al seminario svolto oggi nella sala conferenze dell’ex Hotel Bologna, una delle sedi del Senato, organizzato in collaborazione con la Fnsi e con il patrocinio della Presidenza del Consiglio – Dipartimento per l’Editoria e del Ministero degli Esteri – DGIEPM. Dopo gli interventi introduttivi del Presidente Cretti, dei rappresentanti di Governo e Mae e dei parlamentari, la parola è passata ai protagonisti, a chi scrive o edita all’estero. Moderati dal vicepresidente Fusie, Lorenzo Prencipe, gli operatori dell’informazione hanno affermato pure l’importanza del controllo. Le regole vanno rispettate, insomma, perché se nel futuro si avranno meno contributi, almeno si dovrà avere la certezza che siano assegnati a chi se lo merita.
"Voglio la Guardia di Finanza" ha tuonato Mimmo Porpiglia (Gente d’Italia) all’inizio del suo intervento. "I giornali veri sono quelli che danno fastidio", ha aggiunto il direttore del quotidiano ora edito a Montevideo, che, ha ricordato, "per due anni ci siamo visti sospendere i contributi" poi riassegnati. Per Porpiglia è fondamentale "tirare fuori chi specula e chi truffa: sono una vergogna per tutti". Mele marce che esistono "pure tra i periodici: c’è chi certifica milioni di copie e i consoli firmano. Perché lo fanno? Ci vogliono bilanci certificati e chi fa informazione deve essere un giornalista". Tutto all’insegna del controllo: "quello del Mae non basta. Voglio la Guardia di Finanza", ha ribadito.
Da quattro anni a capo de "L’Ora di Ottawa", testata che esiste da 40 anni, Siraco ha i conti in regola perché ha gli abbonamenti certificati: "invio il giornale a 1800 famiglie in abbonamento". I suoi lettori sono i primi emigrati: "dalla pagina web non ho avuto grandi soddisfazioni. I lettori de "L’ora" vogliono al copia in mano, spedita a casa". Difficile intercettare "la terza generazione" con le regole attuali. "Forse scrivendo anche nella lingua locale potremmo essere più appetibili", ha detto. Quanto ai contenuti – il regolamento di attuazione della legge 416/81 parla di "fatti dell’Italia e del lavoro italiano all’estero" – sono notizie che "tutti possono reperire sul web e sulla tv". Per Siraco si deve "mantenere la località, la regionalità delle testate", mentre dall’Italia i contributi dovrebbero "arrivare prima".
Stoico, Frank Barbaro (Nuovo Paese) è arrivato dall’Australia per partecipare al seminario. "Nuovo Paese esiste da 35 anni e ora stiamo investendo sul web", ha annunciato. "Ma – ha aggiunto – ricordiamoci sempre il nostro faro: il rapporto con le comunità di cui siamo a servizio". Per Barbaro "la questione del lavoro italiano all’estero è ancora importante", ma non può essere un "gabbia" per i contenuti. Quanto ai soldi, "i pagamenti vanno fatti dopo rigorosi controlli, ma devono essere puntuali e tempestivi". Inoltre, per "qualificare la nostra presenza, potremmo ospitare nelle nostre redazioni stage di giovani italiani che vogliono intraprendere la carriera di giornalista. Nel nostro piccolo – ha concluso – possiamo essere una stampa di servizio, più di quanto fa la grande stampa".
Per Tommasi (Trentini nel mondo) "il nemico numero uno della informazione italiana all’estero non è la crisi ma l’involuzione della società italiana. Per noi – ha aggiunto – è impossibile fare lobby perché siamo troppo diversi, facciamo cose diverse: ci sono quotidiani, periodici, il mensile edito in Italia per l’estero, il bollettino parrocchiale". Insomma troppe voci diverse che fanno fatica a farsi sentire e, ha osservato, "la diversità viene percepita come debolezza". D’accordo con la proposta del senatore Randazzo sulla costituzione di un "Comitato ristretto Fusie" che sintetizzi le proposte degli operatori, Tommasi ha concluso: "le mie proposte riflettono la mia realtà di rivista associativa. Potremmo tener conto della longevità di una testata, della continuità dei suoi abbonamenti. Trovare regole per tutti non è facile. E comunque non tutti i criteri possono avere lo stesso valore".
Deputata nella scorsa legislatura e giornalista, per Mariza Bafile (La voce d’Italia – Venezuela) "la realtà amara da guardare in faccia è che né noi giornalisti né i parlamentari siamo riusciti a rompere il tetto di cristallo che ci farebbe "entrare" in Italia dalla porta principale. Non nella politica, proprio nella società. Qui in Italia non arriva l’eco delle nostre battaglie".
Per Bafile "è assurdo che qualcuno ci dica ancora cosa dobbiamo scrivere. Come si coniuga il disposto del regolamento con la libertà di stampa? È un’offesa da sopprimere! E ancora: quanti di noi hanno ascoltato un diplomatico o un presidente di Comites dire "tu dovevi scrivere questo e quello perché prendi i contributi"?" Sui controlli il "tema è delicato" perché "è sì necessario trovare i paletti, ma anche stare attenti a decidere a chi affidare il parere sul giornale. Il parere – ha avvertito Bafile – rende il giornale ricattabile. Meglio un controllo da commissioni esterne. Commissioni che fanno dei blitz non annunciati. Meglio questo che il parere dei Comites".
E se è vero che "l’italiano è fortemente richiesto all’estero e che i nostri giornali ne sono veicolo importante", è anche vero che "noi siamo anche informazione e cultura. Per diffondere la cultura, forse almeno una parte – direi 50 e 50 – usare la lingua locale porterebbe un messaggio "italiano" anche a chi l’italiano non lo parla e non lo vuole imparare".
Infine, Bafile ha detto un chiaro "no" a "regole che non tengono delle diversità dei Paesi in cui lavoriamo. L’Italia – ha chiarito – ragiona come se noi fossimo tutti qui. In Venezuela la situazione è molto difficile: il trasporto dei giornali via terra è pericolosissimo e allora i corrieri partono sempre prima e tu devi chiudere sempre prima; e poi sparano al tuo tipografo – come è successo al nostro, vittima di un agguato – e il giornale non è pronto. E allora io senza strillone non vendo. Creiamo delle regole, ma che siano flessibili quel tanto che basta – ha concluso – per tener conto delle diverse realtà locali".
Osservazioni condivise da Marco Basti (Tribuna italiana – Argentina) secondo cui "l’Italia deve servirsi della stampa italiana all’estero come strumento".
"Sì ai controlli", anche da Basti che, ha spiegato, quest’anno non ha presentato domanda "perché non avevo tutte le fatture della tipografia. In Argentina oggi la situazione è complicata, è tornata una grande inflazione e le ditte scompaiono dall’oggi al domani".
In ogni caso, per il direttore della Tribuna "non dobbiamo perdere tempo a cercare carte che ci diano diritto ai contributi per sopravvivere. Dobbiamo impegnarci per fare un prodotto migliore". La Tribuna, ha ricordato, "è nata nel 77 con 12 persone in redazione, oggi ne siamo 4. Cerchiamo sempre di essere presenti agli eventi della collettività e di condividerne le battaglie, ma se le regole diventano avere un tot giornalisti, un tot di poligrafici non riusciremo mai a stare al passo".
A capo delle edizioni Edit (che, tra gli altri, pubblica da Fiume il quotidiano "La voce del Popolo") per Silvio Forza i paletti sui contenuti che imbrigliano la stampa italiana all’estero sono "offensivi" perché "ledono i principi democratici di pensiero e parola, perché sono restrittivi per noi italiani all’estero, che non siamo tutti figli dell’emigrazione da lavoro". Offensiva, per l’editore, anche la politica italiana che "non ci considera veicolo di cultura: basti pensare a quanto stanzia per la Dante Alighieri". Per Forza occorre "sfruttare questo momento" perché se è vero che "non cambierà nulla a livello di coscienza collettiva" è anche vero che "è ora di intervenire".
L’editore si è detto "sorpreso da quanto detto dal senatore Vita: sono 8 anni che parliamo di Stati Generali dell’editoria e nessuno ci ha mai coinvolto". Secondo l’editore "i contributi dovrebbero essere erogati in proporzione alle spese fatte. Io vendo il 75% di quello che stampo, in redazione ci sono solo giornalisti professionisti assunti a tempo indeterminato, paghiamo con bonifico, dunque cifre rintracciabili, ma capisco bene che ci sono zone in cui questo non è possibile. E va bene la professionalità, ma – ha concluso – non si può castigare chi, con entusiasmo, vuole fare questo lavoro".
Al termine dei lavori, la parola è di nuovo tornata al presidente Fusie, Giangi Cretti, che ha raccolto la proposta di Randazzo di costituire il "Comitato ristretto" che sintetizzi quanto emerso oggi. questo nucleo di proposte, ha spiegato, sarà diffuso agli operatori dell’informazione via mail, "così da dare a tutti il tempo per intervenire", ha assicurato, per affidare questo testo "ai parlamentari che oggi ci hanno dato la loro disponibilità".
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