Con l’approvazione definitiva del cosiddetto Decreto Cittadinanza alla Camera dei Deputati l’Italia ha voltato le spalle a milioni di persone che, pur vivendo fuori dai confini nazionali, si sono sempre riconosciute nei valori, nella lingua, nella cultura e nella storia del nostro Paese.
Si tratta di una riforma strutturale che, in nome della ‘sicurezza nazionale’ – una motivazione discutibile se applicata a politiche di cittadinanza – restringe profondamente l’accesso iure sanguinis, ponendo limiti mai visti prima nella legislazione repubblicana e non riconoscendo più il valore della doppia cittadinanza.
In pratica, l’Italia, Paese che ha sempre costruito un’ampia rete di rapporti con le sue comunità all’estero, ora li rinnega.
Viene meno non solo il diritto automatico, ma anche il riconoscimento del legame culturale, familiare e affettivo che milioni di cittadini nel mondo rivendicano come parte della propria identità. E questo, oltretutto, in un contesto internazionale incerto, dove proprio quei legami con le sue comunità sparse per il mondo, offrono all’Italia un canale privilegiato di dialogo con le altre nazioni.
Con questa decisione l’Italia restringe il proprio orizzonte nazionale e identitario, riduce il proprio soft power, abbatte in un colpo solo quel ponte ideale che unisce gli italiani in tutto il mondo, creando un distacco che presto avrà pesanti ricadute anche in termini economici.
In un’epoca in cui si parla di ‘Italia globale’, di diplomazia culturale e di investimenti nella diaspora italiana come risorsa strategica, questa riforma rappresenta una contraddizione profonda. È una pagina amara per chi si sente italiano senza aver potuto formalizzarlo, per chi ha custodito con orgoglio l’identità ricevuta in eredità e per chi, oggi, si vede negare la possibilità di trasmetterla ai propri figli.
Una riforma che avrebbe meritato un ampio dibattito parlamentare e pubblico viene approvata con decreto-legge, nel silenzio. Ma le sue conseguenze faranno rumore, non solo nelle comunità italiane all’estero, oggi tradite ed escluse, ma anche in patria.
Sì, perché letto in controluce, questo decreto ha un portato dalle preoccupanti implicazioni ideologiche e politiche.
Rappresenta una de-umanizzazione dell’eredità culturale, senza alcun riconoscimento del vissuto affettivo, migratorio o intergenerazionale che lega i discendenti all’Italia.
Effettua uno spostamento semantico dell’identità: non basta più ‘essere nati da italiani’, ma si deve dimostrare che l’italianità dell’ascendente non sia stata inquinata da altri legami giuridici, neppure post-mortem.
È un principio di purismo giuridico che cancella la nozione di cittadinanza come fenomeno plurale e stratificato.
Applica una esclusione del pluralismo identitario, precludendo la cittadinanza a chi ha un legame di sangue ma anche altre cittadinanze, negando la realtà globale di milioni di italo-discendenti che vivono da generazioni in contesti multiculturali.
Tutti questi non sono concetti astratti, ma derivano da un preciso profilo ideologico-culturale che richiama logiche di esclusione e di “difesa dell’identità nazionale”.
Un nazionalismo etnico-culturale che afferma una visione della cittadinanza basata sul sangue “puro” e sulla trasmissione unilineare e incontaminata dell’identità nazionale. Implicazioni che oggi colpiscono gli italiani nel mondo, ma domani colpiranno uno ad uno anche tutti gli altri. È un primo passo, al quale ne seguiranno altri, per escludere sempre di più.
Dopo di noi, toccherà ai cittadini italiani che vivono in Italia e hanno un’altra cittadinanza. Poi a chi pratica un’altra religione. Poi a chissà chi altro. È una storia che abbiamo già visto e che non possiamo accettare si ripeta.
Bisogna mettere un argine subito, prima che sia troppo tardi. Le nostre comunità all’estero si opporranno come potranno a questa deriva ideologica pericolosissima e lo faranno non solo per se stessi, ma per tutti gli italiani. Per i nostri connazionali ai quali, nonostante il governo provi a separarci, ci sentiremo sempre legati.
*amministratore delegato del Coasit di Melbourne e già deputato Pd eletto all’estero