Chi di noi non ha pensato almeno una volta di lasciare l’Italia e trasferirsi altrove per studio, lavoro o semplicemente alla ricerca di un luogo nuovo dove vivere? Ma quando l’occasione arriva e la prospettiva diventa concreta, oltre all’entusiasmo si affacciano le paure, le ansie e gli interrogativi: come imparare in breve tempo a funzionare in un Paese diverso, dove lingua, cultura e abitudini sono del tutto nuove e sconosciute? Quali difficoltà e opportunità dovranno affrontare tutti i componenti della famiglia? E tornando a casa sarà tutto come prima?
Per molti italiani di tutte le età andare a vivere all’estero oggi non è più solo un sogno, ma un progetto concreto che richiede coraggio ma anche preparazione, perché l’avventura comincia prima di partire e si conclude ben dopo essere tornati. Gli aspetti logistici in fondo sono i più facili da gestire.
Francesca Prandstraller, autrice di "Vivere all’estero. Guida per una relocation di successo" (Egea 2014, 160 pagg., 16,50 euro, 9,90 e-pub), dà indicazioni molto pratiche, ma vuole soprattutto aiutare ad affrontare consapevolmente gli aspetti intangibili del trasferimento, quelli che ne determinano veramente il successo e che consentono di superare le difficoltà iniziali per gioire alla scoperta nuovi mondi e per cogliere l’essenza dell’esperienza fuori dai confini nazionali. Le differenze culturali si manifestano in primo luogo nei comportamenti quotidiani e nei modi di agire delle persone.
"Perciò in qualsiasi parte del mondo stiate andando – dice l’autrice – anche se vi ritenete persone mentalmente molto aperte e internazionali, non potrete evitare di sperimentare situazioni nelle quali i vostri valori, aspettative o abitudini si scontreranno con quelli delle persone del luogo. Quindi quando andiamo a vivere all’estero quello di cui dobbiamo essere consapevoli è che vivremo uno shock culturale", inevitabilmente, più o meno lungo, più o meno intenso a seconda di chi siamo, che esperienze precedenti abbiamo e di quanto è distante la cultura d’arrivo dalla nostra origine.
La cosiddetta curva del culture shock o meglio dell’adattamento si divide in fasi: la prima fase è definita luna di miele perché il nuovo arrivato si sente euforico e affascinato da tutte le novità che incontra, ogni cosa con cui si ha a che fare è sconosciuta ed eccitante e si tende a vedere in una luce favorevole le novità e le diversità.
Purtroppo questa fase positiva dura solo qualche settimana, e ben presto subentra la seconda fase, detta della negoziazione nella quale, passato l’entusiasmo, l’espatriato incontra difficoltà nella vita quotidiana e nella comunicazione. Capire e farsi capire nella vita di tutti i giorni è difficoltoso, i gesti, le abitudini, il cibo, l’ambiente circostante diventano irritanti e presto possono subentrare sentimenti di impotenza, frustrazione, rabbia, tristezza, incompetenza.
La fase dell’adattamento, inizia solitamente dopo qualche mese quando la persona comincia a sviluppare routines e capacità che la aiutano a interagire con la nuova cultura: ciò che era nuovo non lo è più, nasce un nuovo senso di soddisfazione e di comprensione di ciò che appariva estraneo. Ritorna pian piano la sensazione di essere in equilibrio con sé stessi, di avere una direzione nella propria vita e di non sentirsi del tutto persi ed in balia del mondo esterno.
La familiarità con il nuovo ambiente genera un nuovo senso di appartenenza ed inizia il confronto tra le nuove e le vecchie abitudini di vita. Man mano che si consolida questa fase, la persona comprende che la nuova cultura ha in sé, come tutte, aspetti positivi e aspetti negativi. In questa fase si attuano integrazione ed adattamento accompagnati da un più solido senso di appartenenza, identità e nuovi fini da raggiungere.
Francesca Prandstraller è docente in Bocconi di Organizzazione e risorse umane, con particolare attenzione alle problematiche della gestione delle risorse umane internazionali.
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