Il fiume di lavoratori rompe gli argini e invade le strade di Taranto. Erano in 20mila, secondo i sindacati. Con fischietti, megafoni, striscioni e bandiere. Con rabbia. Con dignita’. Con la paura di perdere il lavoro. Con la voglia di lottare per un obiettivo che appare ancora un miraggio: tutelare occupazione e diritto alla salute. Per non essere costretti a fare una scelta innaturale: meglio morire di fame o di tumore? Uno scudo umano a protezione dell’acciaieria, che rischia la chiusura per il provvedimento di sequestro deciso (ma ancora non attuato) dalla magistratura. Dal piazzale dell’Arsenale della Marina militare e dal ponte di pietra, due punti opposti della citta’, sono partiti altrettanti cortei che si sono ingrossati a vista d’occhio col passare dei minuti. In testa c’erano i lavoratori: tute blu, gialle e grigie. Fazzoletti al collo, sguardo fiero. Hanno attraversato la citta’ sventolando bandiere e intonando cori da stadio. ‘Il lavoro non si tocca! Il lavoro non si tocca!’. Mentre poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa vigilavano ai bordi delle strade e due elicotteri sorvolavano la zona, si infiltrava un gruppo di contestatori a bordo di un apecar. Non erano black bloc: ‘Siamo lavoratori dell’Ilva’, hanno spiegato’. Lavoratori ‘indignati’ che non si sentono tutelati dai sindacati e affrontano a muso duro anche i vertici aziendali.
Le urla degli operai hanno squarciato il silenzio ovattato della Taranto sonnecchiosa, che guardava con diffidenza alla manifestazione di piazza. In marcia su via Di Palma e via D’Aquino, il salotto buono della citta’, dove tradizionalmente si svolgono le processioni della Settimana Santa. Ma questa volta non e’ l’estenuante dondolio, la ‘nazzicata’, delle coppie dei ‘perdoni’, a caratterizzare il corteo. I manifestanti avanzano a passo spedito, bruciano i tempi per arrivare in piazza della Vittoria, dove ci sono i tre leader sindacali. Nella piazza dei comizi, nella piazza che ribolle. ‘Non diciamo che l’Ilva non inquina – sottolinea uno degli 11.600 dipendenti diretti dell’Ilva, che manifesta insieme a moglie e figli – ma da qui ad essere chiamati assassini ce ne corre. L’azienda in questi anni ha investito per ambientalizzare la fabbrica, ma ora anche gli altri protagonisti, la politica e la magistratura, devono fare la loro parte’.
Ci sono i politici, ci sono i sindacalisti, ci sono gli studenti, i rappresentanti di associazioni, semplici cittadini che si sono uniti alla protesta in modo spontaneo e forse inconsapevole. Non sfilano, per ovvie ragioni, le vedove dei morti di cancro, i malati che hanno inalato polveri e fumi nocivi provenienti dalle fabbriche dell’area industriale.
In 11 anni, secondo la perizia medico-epidemiologica disposta dalla magistratura, sarebbero 383 i decessi attribuibili alle emissioni inquinanti prodotte dall’acciaieria. Una strage silenziosa. Per anni gli ambientalisti hanno denunciato i rischi che i veleni sputati da camini e cokerie erano in grado di determinare. Oggi, pero’, sono in marcia per solidarizzare con i lavoratori. ‘Sono loro – dicono – le prime vittime dell’inquinamento. Siamo con gli operai, ma siamo fieri della magistratura, che non deve subire condizionamenti, e speriamo che vada fino in fondo per tutelare la nostra salute, perche’ nessuno lo ha fatto fino ad oggi’. E la ferita si riapre. Si ripongono le bandiere. Qualcuno piange. Altri vorrebbero manifestare a oltranza. Prima, ieri, la veglia di preghiera della Diocesi, poi la marcia dei 20mila. Taranto dice no al ricatto occupazionale e continua a sognare un orizzonte senza nuvole grigie.
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