Non si può restare indifferenti dinanzi alle dinamiche mediatiche ed i correlati riscontri istituzionali, come quello recente della Presidente Inca-Cgil, che nelle ultime settimane stanno interessando il delicato tema dei patronati italiani all’estero e le criticità correlate.
Sicuramente i recenti articoli di stampa hanno cominciato a gettare un faro su un sistema, quello dei patronati italiani oltre confine, nel quale è indubbio che esistano lacune operative, normative ed organizzative che talvolta stridono con l’approccio portato avanti dall’amministrazione su altri versanti, come quello della gestione dei servizi ai connazionali oltre confine.
Nello specifico inquadrare l’attuale politica di gestione dei patronati all’estero, attraverso la lente del contenimento della spesa portata avanti dal Maeci a scapito delle strutture consolari nel mondo, fa riflettere perché evidenzia una contraddizione in capo all’Amministrazione i cui riflessi ricadono inevitabilmente sulla legittimità nonché sulla qualità dei servizi resi ai nostri connazionali.
Un tema degno di attenzione, a cui si è voluto fornire un approfondimento foriero di spunti riformatori proprio attraverso l’indagine conoscitiva sollecitata dal collega Micheloni presidente del Comitato per le questioni degli italiani all’estero di Palazzo Madama.
Esiste un dato oggettivo e certamente indiscutibile: da un lato il Maeci prosegue nel suo complesso percorso di razionalizzazione delle sedi estere, con chiusure di strutture consolari riferimento per migliaia di connazionali, dall’altro l’Amministrazione legittima l’apertura, magari nella medesima circoscrizione consolare oggetto di chiusura, di altre sedi di patronati italiani che si aggiungono a quelle già esistenti e che percepiranno finanziamenti in ambito di punto organizzativo a cui poi – una volta avviata l’attività – si aggiungeranno i rimborsi relativi ai punteggi correlati alle singole attività portate avanti dalla sede.
Questa non è una "fesseria" ma un’ovvietà oltre che una contraddizione in termini dinanzi alla quale non si può tacere.
Soprattutto perché il suddetto trend, ratifica una chiara delegittimazione del ruolo di garanzia svolto dallo Stato in ambiti delicati come l’assistenza del connazionale, attraverso l’attivazione di una delega – dalla opaca legittimità normativa – in capo ad un soggetto privato, nel momento esatto in cui lo Stato stesso ritiene di non poter avere gli strumenti per poter portare avanti quel ruolo, e questo accade quando si decide di chiudere sedi e sportelli consolari.
Non ho mai messo in discussione l’utilità e l’opportunità di sedi di patronato oltre confine, configurandosi queste ultime come naturale tramite del connazionale con talune istituzioni in sede in primis l’Inps: ma l’utilità di una struttura di servizio non può essere il passpartout per un percorso di "aperture selvagge" di nuove sedi, animate dalla costante ricerca di nuovi incarichi e responsabilità, tali da depauperare la basica funzionalità delle presenze statali nei territori esteri eclissandone la funzione, l’immagine e soprattutto la percezione di utilità in capo ai nostri connazionali. Condividere un qualsivoglia percorso di ampliamento della presenza dei patronati oltre confine equivarrebbe, a mio parere, ad accettare che questi si tramutino in qualcosa di diverso dalla semplice associazione privata di diritto straniero, arrivando a configurarsi come una diretta emanazione dello Stato italiano e sappiamo bene che ciò non è minimamente contemplato.
Un patronato con rinnovate ed ampliate funzionalità, le cui sedi cominciano a moltiplicarsi sul territorio estero, non può mantenere una lecita indipendenza ma diventerà inevitabilmente catalizzatore di interessi di natura politica e finanziaria tali da lasciarne evolvere la struttura da centro di pubblico servizio a lobby politica.
La crescente attenzione dei patronati verso dinamiche di natura politica e associativa particolarmente rilevanti tra le comunità oltre confine, in primis quelle afferenti l’elezione dei comites e la rappresentanza nel Cgie, confermano questo inevitabile quanto discutibile trend di "politicizzazione" di quello che nella mission dovrebbe restare un centro servizi.
A tal riguardo, credo che sia opportuno ricordare che il patronato, anche e soprattutto nella sua configurazione estera, dovrebbe detenere una mission fisiologica inderogabile quale quella di svolgere gratuitamente un servizio di pubblica utilità a tutela del prioritario interesse del connazionale, soprattutto quando c’è una chiara difficoltà di comunicazione diretta tra cittadino e istituzioni, in ragione delle notevoli sovrastrutture burocratiche e dall’assenza di facili strumenti di accesso soprattutto in capo a profili afferenti i vecchi flussi migratori caratterizzati da bassi livelli di alfabetizzazione.
Il venir meno di quei presupposti, unitamente anche alla naturale riduzione delle attività di gestione previdenziale, che di fatto, nel tempo, hanno animato e legittimato l’esigenza di un centro servizi italiano sul territorio estero, inevitabilmente dovrebbero condurre ad una revisione del ruolo stesso dei patronati all’estero, inducendoli ad un confronto serrato con una società in evoluzione, con istanze nuove e con protagonisti diversi.
Di conseguenza, dati questi presupposti, nel momento in cui si materializza un’evoluzione del ruolo e si crea una sorta di deroga alla mission originaria, si legittima un evidente snaturamento della sua stessa esistenza e l’evoluzione in qualcosa di diverso che però al momento nessuno sta richiedendo.
Pertanto, da un lato viene meno la originaria mission, svanendo i presupposti di necessità ed opportunità originariamente presenti nelle comunità italiane oltre confine, e dall’altro si moltiplicano le sedi di patronato oltre confine con una ricerca costante di un ampliamento dei ruoli, delle competenze e delle responsabilità pur di legittimare una sopravvivenza della loro funzione: tutto questo lascia emergere una sorta di paradosso istituzionale che merita però di essere seriamente affrontato.
L’unica certezza in questo momento, che però sembra passare in sordina, è l’urgenza di una riforma, la stessa urgenza che è alla base dell’avvio di un’indagine conoscitiva in Senato e che certamente è rafforzata dal moltiplicarsi delle polemiche, anche giornalistiche, che si stanno osservando nelle ultime settimane.
Non ho intenzione di fare anch’io polemica, non volendo tra le altre cose peccare di "lesa maestà" nei confronti di determinati profili, ma credo che sia fondamentale che venga aperto un dibattito condiviso sul tema che miri ad una riforma sistemica, nel quale sia necessaria la partecipazione attiva di tutti gli attori e che giunga alla determinazione di un percorso operativo condizionato da trasparenza e correttezza al fine di evitare interventi tamponativi delle istituzioni, magari invocati da soggetti esterni animati da evitabili polemiche.
*senatore di Area Popolare, eletto nella ripartizione estera Europa
































Discussione su questo articolo