Pochi spiccioli e tutti in nero per i 37 dipendenti di un call center che operava a Palermo: due euro per un’ora di lavoro e per i ”privilegiati” l’importo saliva a tre euro. Una storia di sfruttamento ai danni di un gruppo di persone di eta’ compresa tra 19 e 50 anni, venuta alla luce grazie all’indagine della Guardia di finanza del capoluogo siciliano. La societa’ incriminata e’ una srl con sede legale a Milano, la ”Mondo acque Italia”, che ha come socio di maggioranza un imprenditore di 42 anni, Giacomo La Rosa, il quale rischia sanzioni amministrative che vanno da 72 mila a 644 mila euro.
Per evitare di lasciare tracce, il call center retribuiva i propri dipendenti attraverso una carta prepagata sulla quale il datore di lavoro faceva confluire gli stipendi, circa 350 euro al mese. I lavoratori vendevano impianti di depurazione dell’acqua e ottenevano un premio di 5 euro se riuscivano ad ottenere un appuntamento con un cliente e uno da 20 euro se la vendita andava in porto.
Dei 37 lavoratori individuati, 15 avevano chiuso il loro rapporto di lavoro lo scorso anno, qualche mese dopo l’inizio dell’attivita’ di ”Mondo acque Italia”, che risale al 3 maggio 2012. Inutile dire che i lavoratori non avevano mai ricevuto una lettera d’assunzione ne’ sottoscritto un contratto o firmato una quietanza di pagamento. Il sistema – sostengono gli inquirenti – ha consentito all’imprenditore sia di aggirare i contratti nazionali di settore risparmiando, in soli termini di contrattualizzazione nazionale minima, oltre 40 mila euro, sia di ottenere illeciti risparmi in termini di contribuzione assistenziale e previdenziale. Per le 2.400 giornate lavorative ricostruite dai finanzieri per tutti i lavoratori individuati nell’arco di un semestre, il titolare del call center avrebbe dovuto versare contributi pari a 20 mila euro.
Ma la vicenda di Mondo acque ”e’ ormai quasi una regola – dice Francesco Assisi, segretario provinciale della Fistel Cisl -. Il fenomeno sta dilagando. Faccio un appello alle prefetture e alle istituzioni affinche’ impediscano che le imprese di call center possano partecipare ad aste, anche di grandi aziende e multinazionali, che prevedono importi ridicoli. Un committente non puo’ pagare – come accade – 7 euro (meno della meta’ di un costo appena ragionevole) per un’ora di lavoro, perche’ cosi’ facendo invita all’illegalita’ il vincitore dell’appalto, che finisce inevitabilmente per rivalersi sulla retribuzione dei lavoratori”. ”I call center di media grandezza, quelli con piu’ di 400 unita’, soggetti a ispezioni e controlli, e’ chiaro che mettono formalmente in regola i lavoratori. Ma siccome non possono reggere i costi, utilizzano gli ammortizzatori sociali per gli assunti e subappaltano il lavoro, a prezzi ridicoli, a societa’ terze che vivono nell’assoluta illegalita’. Per fermare tutto questo occorre impedire che le aste scendano sotto l’importo minimo che garantisce la copertura dei costi e l’agio per l’imprenditore”.
































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