L’emigrazione dei giovani talenti è una ferita aperta che costa all’Italia circa 16 miliardi di euro l’anno in capitale umano.
Secondo le stime del Cnel per il triennio 2022-2024, citate da La Stampa, il Paese non riesce né ad attrarre né a trattenere i propri giovani: la Lombardia perde oltre 3 miliardi di euro, il Veneto 1,6 miliardi, in quello che l’economista Mauro Zangola definisce un vero e proprio esodo causato dalla mancanza di investimenti strutturali.
Il divario nasce già dal sistema formativo. L’Italia investe nell’istruzione universitaria 8.992 dollari per studente: il 60% in meno rispetto alla Francia e meno della metà della Germania.
Una distanza che si traduce in opportunità mancate e spinge sempre più laureati a cercare all’estero quei percorsi professionali chiari, stabili e meritocratici che in patria faticano a trovare.
«Oggi i giovani sono una risorsa colpevolmente poco e male utilizzata», osserva Ivana Veronese della Uil, in un mercato del lavoro segnato da precarietà e salari bassi. Il paradosso è evidente: i giovani italiani con laurea e master trovano facilmente occupazione qualificata fuori dai confini nazionali, mentre in Italia il tasso di occupazione nella fascia 15-29 anni è il più basso d’Europa, fermo al 34,4%.
Come sottolinea il ricercatore Alessandro Foti, autore di Stai fuori!, il problema è strutturale e non si risolve con bonus temporanei, ma con politiche di lungo periodo capaci di ricostruire fiducia, opportunità e prospettive.
Perché se è vero che l’emigrazione italiana ha prodotto storie di successo in tutto il mondo, la fuga di cervelli di oggi non è più una scelta romantica o avventurosa, ma il segnale di un Paese che fatica a investire sul proprio futuro. E, come conclude Veronese, che «non sta disegnando un orizzonte credibile per le nuove generazioni».































