La maggior parte dei ricercatori italiani all’estero non ha alcuna intenzione di tornare in Italia e questa è davvero una pessima notizia, molto più di quanto si creda, perché svilisce la reputazione e la credibilità internazionale dei nostri istituti di ricerca e delle nostre bistrattate università.
Su un campione di quasi mille ricercatori espatriati con un’età compresa tra i venticinque e i quarant’anni, il 73% risiede felicemente fuori dai confini nazionali e non ha intenzione di tornare indietro per mille motivi che pesano come pietre.
La restante percentuale tornerebbe solo a determinate condizioni. E come dare torto ai nostri giovani, visti i magri stipendi di un’Italia matrigna nei confronti dei suoi figli migliori?
Costoro vorrebbero il riconoscimento pieno della carriera acquisita, maggiori redditi, migliore gestione delle risorse destinate alla ricerca e alle università ovviamente, tuttavia per ora ciò sembra una pia illusione.
La vera nota dolente però è l’accesso ai finanziamenti per la ricerca, in Italia considerata non meritocratica. I nostri ricercatori all’estero non si nascondono più, e a viso scoperto e con non poca amarezza denunciano raccomandazioni, nepotismo, favoritismi che hanno sempre strozzato le aspirazioni di tanti che hanno faticato per emergere e spesso non ci sono riusciti. Quindi non solo vengono tarpate le ali a chi vale, ma si svilisce inevitabilmente il prestigio della ricerca italiana, riducendola a una barzelletta.
Quasi tutti i nostri ricercatori emigrano per inseguire migliori opportunità occupazionali, incentivi economici, attratti dalla possibilità di avere risorse e strumenti per andare avanti con il loro lavoro. Dunque i principali fattori di richiamo risiedono nell’efficace organizzazione del lavoro estero, nelle strutture, nelle politiche applicate e nelle prospettive di carriera che qui in Italia si riducono al lumicino, semplicemente perché bisogna riservare un posto al sole a una pletora di mentecatti ben protetti e talvolta non solo inconcludenti, ma anche pericolosi, quanto meno per la nostra reputazione di “Nazione”.
Insomma, tutte queste valutazioni finiscono per far sfumare del tutto la voglia di rientrare e colmano di amarezza i discorsi e diciamo pure gli sfoghi di tante menti eccellenti che non giocano e probabilmente non giocheranno mai per la nostra squadra, quella italiana.
Molti biasimano che tanti ricercatori italiani scappino, per il fatto che desiderano la valorizzazione delle loro competenze, e che vogliano sfuggire dall’eterna e farraginosa burocrazia italiana che strozza fin troppe iniziative, bloccandole sul nascere, e questo è grottesco.
Infine c’è un aspetto che incuriosisce; nonostante la considerazione quasi del tutto negativa delle proprie condizioni di lavoro, se si chiede oggi a un ricercatore italiano non giovanissimo la sua disponibilità a trasferirsi altrove, traspare solo una prudente propensione a emigrare. Forse si spera nella riforma dell’università, o nella congiuntura economica che potrebbe migliorare. Fatto sta che chi si trova all’estero per il momento non pensa di rimpatriare, mentre i ricercatori che decidono di restare, nonostante le forti critiche al paese, lo fanno ancorandosi a un incrollabile e forse utopistico ottimismo.
L’Italia è brava a formare cervelli ma non a custodirli, e tanto meno ad attrarli e per nulla a farli rientrare.
Siamo primissimi tra quaranta paesi per numero di richieste di finanziamento a dimostrazione che i ricercatori italiani hanno “fame” di ricerca e sono sempre più costretti a guardare altrove visto che nelle nostre università e nei centri di ricerca i fondi se arrivano sono centellinati con il contagocce.
Inoltre l’Italia come destinazione finale dove poi spendere i fondi garantiti dall’Ue è snobbata dai ricercatori degli altri Paesi, spesso molto sostanziosi, quindi se c’è un momento per riformare, è senz’altro questo.
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