Washington – Tre anni dopo l’Europa, anche l’America deve risolvere il grave problema del deficit di bilancio e del debito sovrano. Un problema chiamato “fiscal cliff” o baratro fiscale perché si tratta se non di colmare almeno di ridurre entrambe le voragini. Come in Italia e negli altri “piigs” o paesi più indebitati appunto. E con che mezzi? I soliti: l’aumento delle tasse e i tagli al welfare, l’austerity insomma. Al momento, il presidente Obama e i repubblicani, che hanno mantenuto il controllo della Camera, sono lontani da un accordo. Ma è probabile che lo raggiungano, e su basi molto diverse da quelle europee. Cioè con una piccola dose di austerity, un maggiore aggravio fiscale sul ceto alto, non su quelli medio e basso come in Italia, e un modesto taglio ai servizi sociali. Ma anche con il rilancio dell’economia che è mancato e manca tuttora all’Europa e che fa la differenza tra la prosperità e la povertà. Che l’economia occidentale abbia bisogno di massicci investimenti è fuori discussione: secondo l’Institute of International finance, oggi in Europa essi sono al minimo degli ultimi 60 anni. Ma non perché manchino i capitali, bensì perché pochi credono imminente la ripresa dell’economia. In attesa di tempi migliori i ricchi, rileva l’istituto, li spendono in generi di lusso o in giochi in borsa. E le multinazionali, le banche, le assicurazioni se li tengono stretti, limitando il credito: in tutto il mondo, disporrebbero di 7.750 miliardi di dollari inutilizzati, 2 mila dei quali nell’area dell’euro. Un tesoro nascosto, lamenta l’istituto, tesoro che, come vorrebbe Obama, dovrebbe finanziare invece le attività produttive. Simon Tilford del Center for European reforms è d’accordo. Anzi al momento, afferma, ridurre le tasse sui ricchi e sulle “corporation” è inutile. L’economista va oltre. A suo giudizio, i sistemi fiscali che premiano il reddito da capitale ma deprimono quello da lavoro non facilitano la ripresa economica, ma al contrario la ostacolano. “Le politiche che riducono la percentuale della ricchezza nazionale che va a chi lavora, comprese quelle non connesse al fisco, come i tagli del welfare” ammonisce “danneggiano l’economia. L’Unione europea, dove la disoccupazione è già al massimo degli ultimi 15 anni, rischia una seconda recessione proprio perché ha fatto un eccessivo ricorso a esse per risanare i debiti sovrani”. Stando a Tilford, l’uscita dalla crisi dipende dalla ridistribuzione della ricchezza a favore dei ceto medio e bassi e dal rilancio dei consumi.
Più elevato è il loro reddito disponibile, conclude, e più consumano. A quel punto, l’attività produttiva ricomincia e si materializzano gli investimenti. E’ la sconfessione della “trickle down” economy, l’economia dall’alto al basso così cara ai conservatori a Londra e ai repubblicani a Washington, ma che ha generato il movimento degli indignati e ha diviso l’Italia e l’America in due società, quelle del 10 per cento dei privilegiati e del 90 per cento dei penalizzati. Sconfessione avallata da un libro, “Why nations fails”, perché le nazioni falliscono, di due economisti americani, James Robinson e Daron Acemoglu, secondo cui la solvibilità e la crescita di un Paese non dipendono soltanto da dati quali il Pil, il deficit di bilancio e il debito sovrano, ma anche dalla credibilità dei governi e dal consenso che essi riscuotono tra i governati. Quando un governo è in grado di prendere misure socialmente condivise, scrivono Robinson e Acemoglu, le obbligazioni che emette trovano una buona accoglienza sui mercati. Queste e altre analisi analoghe sono confortate dai fatti. L’America è in ripresa perché Obama ha già ridotto le tasse sul reddito da lavoro tramite detrazioni e rimborsi per i ceti medio e basso, e ha stimolato l’economia rifiutando di imporre un’austerity spietata. L’Italia e l’Unione europea ristagnano anche perché hanno scelto la strada opposta e non accennano ad abbandonarla. Come protestano i premi Nobel americani dell’economia Paul Krugman e Joseph Stiglitz, è ora che i sistemi fiscali rettifichino il tiro. Una riduzione delle tasse è necessaria, ma per il 90 per cento dei cittadini sinora penalizzato, mentre il 10 per cento privilegiato può pagare di più. Questo dibattito deve essere motivo di riflessione per l’Italia, dove il governo Monti ha compiuto un percorso obbligato, penoso per la maggior parte degli italiani, riacquistando miracolosamente la fiducia dei mercati. Terminate le riforme più urgenti, purtroppo in prevalenza a carico dei ceti medio e basso, esso è chiamato a rivedere il sistema fiscale. La revisione non può tuttavia consistere solo della caccia agli evasori (tra l’altro, se il sistema fiscale italiano fosse meno iniquo ci sarebbero meno evasioni). Deve condurre anche a una graduale e oculata riduzione delle tasse, fatta eccezione per i ricchi. Ne hanno bisogno le famiglie, i cui consumi sono crollati con effetti nefasti sull’economia, e ne hanno bisogno le imprese. L’Italia non si riprenderà se rimarrà troppo a lungo il Paese più tassato dell’Occidente.
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