La migrazione è una costante della storia dell’uomo.
Le prove archeologiche e genetiche mostrano che il genere Homo è nato in Africa e da lì ha iniziato a diffondersi fino a popolare tutti i continenti In quella fase questi spostamenti avvenivano verso terre prive di altri esseri umani, ma a un certo punto gruppi diversi iniziarono a incontrarsi.
Non sappiamo quanto tali incontri avvenissero in modo conflittuale o pacifico, ma ciò che sappiamo con certezza è che le specie Homo erano originariamente più di una ma solo noi Sapiens siamo sopravvissuti.
Un caso emblematico è quello europeo: i Sapiens incontrarono i Neanderthal altrettanto evoluti con i quali probabilmente entrarono in competizione, ma ebbero anche scambi e incroci biologici.
Ancora oggi nel nostro DNA restano tracce di un periodo di convivenza. Più tardi, con l’espansione di Roma, popoli diversi furono conquistati e assimilati, generando nuove culture ibride dopo aver causato la fine delle altre.
Questi esempi dimostrano che la migrazione, a lungo termine, produce trasformazioni e nuovi equilibri. Ma il percorso è raramente pacifico: l’arrivo dei popoli germanici contribuì non solo al crollo dell’Impero romano d’Occidente ma anche al disfacimento della società romana.
Un caso ancora più emblematico di incontri non sereni tra culture molto diverse è stato l’arrivo degli europei nelle Americhe che portò al declino drammatico delle società indigene e alla sparizione delle loro culture.
L’arrivo di gruppi numerosi, portatori di tradizioni differenti, può essere percepito come una minaccia alla coesione sociale, generando fenomeni di disorientamento, insofferenza e conflittualità. In questo senso, il compito delle istituzioni è quello di salvaguardare l’armonia interna e prevenire dinamiche di instabilità.
La lezione storica è chiara: nel lungo periodo, le mescolanze culturali arricchiscono. Ma nel breve termine la convivenza non è mai semplice. L’analisi politologica sottolinea che il compito dei governi non è quello di riflettere sui processi di lungo periodo, quanto di gestire le implicazioni immediate delle migrazioni.
Una società, infatti, possiede una propria identità collettiva fondata su valori, norme e pratiche condivise e l’arrivo improvviso di numerose persone portatrici di tradizioni differenti costituisce una minaccia alla coesione sociale. È in questi momenti che nascono tensioni, conflitti e comunque precarietà.
Per questo il compito della politica non è quello di ricordare che “l’uomo è sempre migrato”, ma di affrontare le conseguenze concrete dei movimenti attuali. Regolare gli ingressi non significa negare la realtà storica della migrazione, ma garantire che essa non diventi fonte di instabilità.
Le soluzioni politiche: esempi dal mondo
Negli ultimi decenni, diversi Paesi hanno sperimentato strumenti di controllo più o meno severi. Eccone alcuni.
Stati Uniti: Chi oggi critica le misure decise da Trump nei confronti dei migranti irregolari, dimentica che le prime leggi per cercare di controllare le immigrazioni illegali furono emanate negli Stati Uniti negli anni 30.
Così come non ricordano che già all’inizio degli anni ’90 la guardia costiera degli Stati Uniti iniziò ad intercettare in mare i possibili richiedenti asilo per portarli alla base navale statunitense di Guantanamo, a Cuba, dove avrebbero potuto godere di meno diritti di quelli disponibili sulla terraferma degli Stati Uniti, incluso l’accesso a informazioni sul loro possibile diritto di chiedere asilo, di essere rappresentati da un avvocato o di presentare un eventuale ricorso.
Nel 1994 la base ospitava già più di 30.000 richiedenti asilo e, poiché già al completo, l’amministrazione del Democratico Clinton inviò 8.000 richiedenti asilo alla Howard Air Force Base nella zona del Canale di Panama e sulle navi ancorate nel porto di Kingston in Giamaica. Alcuni di loro, in seguito, furono reinsediati come rifugiati in altri paesi tra cui Australia, Nicaragua, Panama, Spagna e Venezuela in cambio di favori diplomatici verso i governi che li accettavano.
Australia: Imitando il modello di Guantanamo, con la Pacific Solution (dal 2001) ha trasferito i migranti intercettati in mare nei centri di detenzione offshore di Paesi terzi quali Nauru e Manus Island. Una misura costosa, ma ritenuta necessaria per disincentivare i viaggi irregolari.
Israele: Nel 2013 ha offerto a migliaia di eritrei e sudanesi un’alternativa: 3.500 dollari e trasferimento in Ruanda (grazie a un accordo segreto con quel Governo), il ritorno in patria o la detenzione a tempo indeterminato. Il Ministro degli esteri ruandese, nel maggio 2025, ha comunque affermato essere in corso una negoziazione anche con l’amministrazione Trump per accogliere i migranti espulsi dagli Stati Uniti.
Danimarca e Regno Unito: hanno tentato accordi simili con il Ruanda; Londra ha dovuto sospendere il progetto a seguito della bocciatura della Corte Suprema, che temeva per la sicurezza dei richiedenti asilo. La Danimarca ha dovuto sospenderlo due volte dietro insistenze dell’allora Commissione Europea (2011 e 2022).
Unione Europea: Su pressione tedesca, nel 2016 ha firmato con la Turchia un’intesa che prevedeva 6 miliardi di euro e l’esenzione dei visti per i cittadini turchi in cambio dell’ospitalità forzata per i siriani e altri medio orientali che cercavano di raggiungere i confini europei.
Più recentemente, l’Italia ha siglato un accordo con l’Albania per localizzare in quel Paese potenziali richiedenti asilo provenienti da Paesi considerati non a rischio. Ciò fino a che non si fosse deciso o per la concessione dell’asilo o per il loro definitivo respingimento.
Purtroppo, l’approccio italiano è stato contestato da alcuni magistrati che hanno dimenticato, probabilmente, come funziona la divisione dei poteri. Tuttavia, la soluzione è stata accolta positivamente sia dalla Commissione Europea sia da molti Stati membri che la vedono come un modello da applicare per la funzione deterrente che può esercitare sulle nuove possibili partenze.
La storia ci mostra, dunque, che le migrazioni sono inevitabili e che, sul lungo periodo, contribuiscono a plasmare nuove culture. Ma ci insegna anche che i momenti di transizione sono delicati, segnati da conflitti e squilibri. Per questo, regolare i flussi non è un atto di chiusura ma di responsabilità. Significa garantire che l’accoglienza avvenga in modo sostenibile, senza compromettere la stabilità sociale e l’identità collettiva di chi accoglie.
La politica, a differenza di chi si limita a studiare il fenomeno migratorio, ha il dovere proteggere l’armonia interna delle comunità. È un compito spesso criticato, ma necessario. Perché solo regole chiare e rispettate possono trasformare un fenomeno inevitabile in un’opportunità di crescita, evitando che diventi una fonte di divisione.































