Giorni in cui piovono nomi, smentite, dietrofront e polemiche. Il circo elettorale non ha confini – e in alcuni casi neanche poca vergogna – e investe le scelte dei partiti nella circoscrizione Estero. Qual è il candidato migliore per rappresentare l’umore in parte vulcanico e in parte depresso degli italiani? Riflessione non semplice per un paese in cronica emergenza, soprattutto in una parentesi che, affermano classe dirigente ed Europa, ha nel breve termine la priorità delle riforme. Economiche, istituzionali. Troppo poco, forse. C’è da rifare l’Italia mentre si rifà l’Europa, leggiamo da oltre un anno. E di qui la sfida: chi ci sta, chi ci mette la faccia? La faccia, appunto. Si scelgono nomi che, nella logica di marketing, dovrebbero avere ricadute interessanti. Cantanti, procuratori sportivi e allenatori, mentre non mancano figure atletiche ed esponenti del terzo settore. La società civile, dice qualcuno, deve dare il suo contributo anche se, almeno in parte, avrebbe dovuto farlo prima, attraverso un uso reale della concertazione e della presunta capacità di influenzare le politiche pubbliche.
Negli anni in cui si discuteva sull’opportunità di chiamare a raccolta gli italiani residenti all’estero nel modo più generoso possibile, Leopoldo Elia ha voluto sottolineare che la creazione di collegi ad hoc non avrebbe comportato la violazione del divieto di mandato imperativo. Insomma – e non può che essere così – un deputato sudamericano o un senatore russo sono parlamentari “normali” rappresentando, dice l’articolo 67 della Carta, la nazione. Ora, ci sarebbe spazio per una divagazione ironica attestando che se l’Italia gioca a picche l’Altra Italia non risponde a cuori. E, guardando al 2006 come al 2008, di esempi “suggestivi” ce ne sono a conferma che quell’“una faccia, una razza” talvolta ci azzecca.
Stando così le cose – e tornando al quesito di partenza – è fuori discussione che i diciotto “stranieri” dovrebbero avere le stesse qualità degli altri 927. Essere, dunque, dei legislatori a tutti gli effetti. Ma, e questa non è una forzatura costituzionale, dovrebbero portare a Roma quel valore aggiunto alla base dello spirito della legge sul voto all’estero, perché portatori del bene e del male in cui le comunità oltre confine vivono quotidianamente. Le faccende che riguardano i nostri connazionali espatriati, però, toccano marginalmente l’attività parlamentare. Il resto del tempo, insomma, gli eletti “a busta” sono chiamati a dire la loro sull’attività “principale”. Ne consegue che tra aula e commissione diano un contributo alla produzione in termini di politica estera, economica, sociale e culturale. E i partiti?
Nei quattro collegi esteri si nutrono di preferenze. Non che i fan del Porcellum mettano nelle liste nomi a coefficiente zero, sia chiaro, ma è questo il principale elemento di scelta. Premesso che i partiti nazionali, anche attraverso la loro rete associativa e sindacale, potrebbero convincere gli elettori all’estero a supportare un candidato piuttosto che un altro, hanno un compito ulteriore, quello di mandare a Roma legislatori con una marcia in più: padroni della lingua (e non sempre è così), “tecnici” in materia di emigrazione, ma anche in grado di non subire l’umiliazione di essere messi da parte quando c’è da discutere e sviluppare temi di una certa importanza. Qualcuno si chiederebbe quale importanza possa avere una o l’altra questione di politica economica o estera per un italiano che passa la sua esistenza in Patagonia. La risposta, semplice, è nel superamento di schemi geopolitici a compartimenti. E se, facendo un esempio assurdo, l’Italia privatizza o nazionalizza ogni cosa non ha per nulla effetti su chi vive all’estero?
Negli stessi giorni in cui la stampa ricordava le prodezze di Antonio Razzi, si è letto di Ricky Filosa che “endorsava” Andrea Verde. Persona competente, scrive l’italiano di Santo Domingo, meritevole di candidatura. Un’offerta c’è stata, in tempi però sospetti, da parte di uno degli uomini forti del Maie, forse il vero numero due del movimento di Ricardo Merlo. Poi, il parecchio saggio “no grazie” di Verde. Botta e riposta che ha innescato una riflessione, forse inutile a liste quasi chiuse, ma che si spera che possa essere un percorso obbligato nel futuro anche a breve. Per le comunità, per dare maggiore valore a quella scelta coraggiosa di Mirko Tremaglia. Riprendendo quanto scrive Filosa, Verde è così immeritevole di provarci?
Lo ha spiegato il diretto interessato giorno dopo giorno. E lo fa illustrando proposte in termini di ricostruzione dell’Europa, ragionando sui vizi della partitocrazia all’estero e suggerendo coraggiose riforme nel “comparto estero” del nostro paese. Sabato scorso, dai microfoni di Radio Radicale e come italiano residente a Parigi (il locus non è poco importante), ha criticato l’assetto della promozione culturale all’estero. «Possibile – si è chiesto – che le nomine dei vertici degli Istituti di cultura debbano continuare a esser legate a logiche politiche?», visto che non si fa peccato a dire che tutto ciò che la politica tocca si rompe, non funziona. E perché – qui la proposta – non trasformarli «in “antenne” in grado di dialogare come si deve con il tessuto politico ed economico del paese ospitante, anche dando ai direttori reali capacità di fundraising? Quella degli Iic, ha sottolineato, è una faccenda strategica oltre che urgente. La domanda di italianità aumenta nei paesi emergenti (e facoltosi) come è ancora forte in quelli a forte presenza italiana. Non approfittare di questa scontata e legittima richiesta, dunque, sarebbe una conferma della miopia che spesso caratterizza la classe dirigente.
Quello di chi scrive non è, al pari di quello di Filosa, un endorsement perché in nessun modo può pungolare i partiti del centrodestra, area naturale di Verde. Si tratta, piuttosto, di uno stimolo alla riflessione, di uno scritto a futura memoria. Transito alla prima persona per segnalare rapporti di vicinanza di Verde con l’Ump e il suo leader Jean-François Copè. In un libro recente (Il voto degli altri, Rappresentanza e scelte elettorali degli italiani all’estero, Rosenberg & Sellier, 2012) ho scritto – forse eccedendo nell’ottimismo – che un parlamentare eletto all’estero può avere il suo perché anche nelle dinamiche della diplomazia parlamentare, stabilendo legami innovativi tra i partiti di due paesi ma appartenenti alla stessa famiglia in termini di programmazione comune su tematiche bilaterali o continentali. Non è frequente che un eletto all’estero o un esponente oltre confine di un partito italiano si lanci, su giornali e social network come fa Verde, in messaggi propositivi, quando occorre polemici, sulle decisioni prese a Roma.
Se l’introduzione di questo articolo è vagamente pessimista la conclusione ci si avvicina, cercando tuttavia di non cadere nel vittimismo tipicamente italico. Stimolo per il futuro, appunto, perché ormai tutto sembra fatto. A che si è guardato, oltre al pacchetto di preferenze, per incoronare gli aspiranti fortunati? C’è di tutto, risponderebbero le segreterie: dall’affermazione imprenditoriale alla visibilità nei circoli vip o presunti tali. Ma, poi, perché a Roma non aprono bocca? Anche se qualche volta è meglio.
































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