Washington – Del discorso inaugurale della seconda presidenza Obama sembra avere colpito il pubblico soprattutto la difesa dei gay. Ma la difesa dei gay è solo il simbolo di un programma che potrebbe cambiare l’America. Un programma di riforme, diremmo in Italia, non più centriste come nel primo mandato di Obama, ma ispirate alla socialdemocrazia. Avendone sentore, i repubblicani accusano il presidente di “socialismo”, termine che in America equivale a comunismo. Un’accusa infondata, perché Obama è un social democratico all’europea, non un rivoluzionario. Il presidente vuole più eguaglianza sociale e più giustizia economica, vuole un’America dove si rispettino i diritti umani e civili, dove la finanza e l’industria private siano regolamentate nell’interesse comune, e dove non si compiano bagni di sangue nel nome della libertà di armarsi. In questo programma, Obama ha dalla sua parte Hollywood, dove registi così diversi come Spielberg e Tarantino hanno presentato due film che riassumono magistralmente i suoi obiettivi.
“Lincoln” di Spielberg, sul presidente che abolì la schiavitù, è un monito alle forze politiche che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge e vanno protetti nella dignità e nella sussistenza allo stesso modo. “Django” di Tarantino, su un cow boy nero del mitico far west protagonista di sanguinosi scontri ma che aborre dalla violenza, è una denuncia del sistema di sopraffazione instaurato dai potenti e dai ricchi, un’esortazione ai deboli e ai poveri a unirsi pacificamente. I due registi sono diametralmente diversi, ma hanno colto lo spirito e le aspirazioni della maggioranza degli americani che hanno rieletto Obama. Dai sondaggi, essi aspettano con ansia le sue riforme. La riforma sanitaria ha contraddistinto il primo mandato di Obama. Se il presidente riuscirà a piegare i repubblicani, non eviterà solo il “fiscal cliff”, il baratro fiscale in cui l’America rischia di cadere a causa del deficit di bilancio e del debito sovrano. Imposterà anche il cambiamento del paese da paradiso del capitalismo a social democrazia, un “big deal”, un grande corso, sul modello del “new deal” il nuovo corso di Roosevelt, il presidente che superò la Grande depressione degli Anni trenta e sconfisse il nazismo nella seconda guerra mondiale. Sarà a beneficio dell’Europa, su cui gli squilibri americani si sono rovinosamente ripercossi dal crac del 2008 a oggi. E l’Europa farà bene a seguire con attenzione e a imitare nei limiti del possibile l’operato di Obama.
Si parla tanto di ripresa economica nel 2013. Ma se ci sarà, ci sarà in America, non in Italia, né in Spagna, né negli altri paesi europei a rischio. Lo dice l’attuale andamento delle diverse economie: quella americana è in crescita di circa il 2,5 per cento annuo, quelle italiane, spagnole ecc sono in continuo declino. E lo dicono le opposte strategie dell’America e dei paesi europei. L’America ha ridotto lievemente sia la spesa pubblica sia le tasse e ha stimolato massicciamente l’industria privata, mentre l’Italia la Spagna ecc hanno tagliato le uscite e aumentato le imposte e le accise in maniera drastica senza investire in nulla o quasi. Di questo passo, è probabile che nel 2013 l’economia americana decolli, e che la nostra economia e quella spagnola retrocedano invece ancora di più.
In visita in Italia, il nobel Paul Krugman, un liberal, ha diagnosticato “una intossicazione da austerity” nei paesi europei. In America Obama, ha osservato Krugman, ha ridotto i posti di lavoro per gli statali, ma non al punto da creare una pericolosa disoccupazione. E perché? Perché sono la sanità e l’istruzione pubbliche che danno agli americani una buona parte degli impieghi e alimentano quindi i consumi. Nel contempo, il presidente ha fornito incentivi di centinaia di miliardi di dollari all’industria privata, alla quale la Banca centrale, la Federal reserve, ha anche concesso ingenti prestiti praticamente a interesse zero. Ha contribuito al rilancio economico dell’America la lieve riduzione delle tasse che ha aggravato il deficit di bilancio e il debito sovrano, ma non irrimediabilmente. La disoccupazione in America rimane alta, attorno all’8 per cento, e la ripresa economica è dura. Ma l’America è sulla strada giusta, mentre i paesi europei a rischio sono sulla strada sbagliata. Per quanto riguarda l’Italia, può darsi che l’indignazione per gli sperperi e per gli scandali della nostra politica sfoltisca le gerarchie parassitarie, quelle delle regioni e delle province incluse. Ma non sarebbe un risparmio sufficiente. Servono interventi integrativi sull’esempio americano. Le penose riforme strutturali del governo Monti sortiranno pochi effetti se non verranno accompagnate da tagli delle tasse e da stimoli all’economia. E’ auspicabile che le nostre elezioni a fine febbraio facciano chiarezza innanzitutto su questo punto.
Anche l’Italia ha bisogno di un “big deal”. E’ vero che l’America non è handicappata dalla finanza globale, che è poi un’estensione della finanza americana, come sono handicappate l’Italia e la Spagna. Ma tocca a Bruxelles sgravare parzialmente di questo peso Roma e Madrid, che non sono più in grado di sopportare eccessivi sacrifici senza cadere nel caos sociale e in una depressione analoghi a quelli della Grecia che si ripercuoterebbero su tutta l’Europa. Il presidente della Banca centrale europea Draghi sta operando come quello della Federal reserve Bernanke. I governi dei paesi forti come la Germania dovrebbero operare alla Obama, acconsentire cioè ai governi dei paesi deboli di rilanciare la economia. Solo in tale maniera i debiti sovrani di questi ultimi verranno adesso contenuti e a medio termine ridotti.
































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