Diciamocelo con onestà e senza giri di parole: mercoledì scorso, in occasione del voto di fiducia al governo di Enrico Letta, si è stabilita di fatto la leadership parlamentare alternativa a Silvio Berlusconi nel centrodestra. Parlamentare perché il Palazzo è una cosa, le urne un’altra. Chi in questi giorni ha parlato di Angelino Alfano come un emulo di Gianfranco Fini non lo ha fatto in malafede, ma con cognizione di causa. Tutto infatti – meno che le brusche frenate delle ultime ore – fa ripensare ai posizionamenti dell’ex presidente della Camera. Applaudito dalla sinistra, osannato dai talk politici anti-Cav, esageratamente sovrastimato dai commentatori politici e dai sondaggisti non solo italiani e di sinistra, ma anche dagli anchorman americani. Insomma, uno il salvatore della Patria perché la fiducia non la votava (Fini); l’altro (Alfano) perché raduna parlamentari che non fanno mancare il loro sostegno all’esecutivo.
Ma se la conta finale in Parlamento era l’obiettivo dei cosiddetti “dissidenti”, il bene e l’unità del partito (oltre che evitare il disastro in mondovisione) era l’interesse dei cosiddetti “lealisti” e dello stesso Berlusconi. Primi su ogni cosa gli impegni sottoscritti all’inizio dell’esperienza delle larghe intese che, diciamolo pure, sono stati pienamente disattesi da un Partito Democratico che non intende concedere alcun margine di manovra al proprio alleato di governo, il Pdl. Partito e leader (Berlusconi) senza i quali nessuna larga intesa sarebbe stata possibile.
Parlavamo di impegni di governo: Imu sulla prima casa, Iva, cuneo fiscale e aggressione senza scuse alla spesa pubblica. Quali di questi impegni sono stati mantenuti dal governo presieduto da Letta? Nessuno. E’ il governo dei rinvii. Neanche la legge elettorale, nemmeno la riduzione del numero dei parlamentari, delle indennità, dei costi della politica, la cessione delle proprietà dello Stato. Niente. Il governo del nulla.
In un quadro desolante e per nulla rassicurante, dove al massimo si è ritenuto di dover sbloccare una tranche di 50 miliardi di euro in cinque anni dovuti alle imprese (peraltro non un regalo, ma il dovere dello Stato di pagare chi ha lavorato per lui), volevate forse che una scossa alla maggioranza non fosse necessaria?
Ricordiamo inoltre la questione decadenza. Berlusconi è stato condannato, la sentenza non si discute e verrà eseguita insieme alla pena accessoria che è l’interdizione ai pubblici uffici. Ma è concepibile che un alleato di governo non conceda nemmeno un allentamento della pressione parlamentare in giunta per le elezioni del Senato, dove il Pdl ha chiesto solo che fosse la Corte Costituzionale (e non un’assemblea composta in maggioranza da donne e uomini le cui posizioni sono da sempre state note) ad esprimersi sulla validità dell’applicazione della Legge Anticorruzione.
Non è vero che la questione personale che colpisce Berlusconi non riguarda direttamente il governo e quindi l’alleato “forzoso” che è la sinistra. Silvio Berlusconi è il presidente di quel partito che insieme ad un altro tiene in vita il governo. La pacificazione, con cui a sinistra ci si lava la bocca, è anche questo: allentare sul livello parlamentare la straordinaria pressione ordita al maggiore partner della compagine governativa. Non è uno scandalo aspettarsi un atteggiamento sì di rigore, ma di allentamento della presa dei democratici. Le priorità sono oggettivamente altre, mentre l’unica aspettativa del piddì sembra essere la più antica di tutte: demolire su più livelli la leadership del Cavaliere.
L’intervento del capogruppo al Senato Zanda, che parla di “un’altra maggioranza politica”, proprio un minuto dopo l’intervento di un Berlusconi che vota la fiducia parlamentare al governo quasi in lacrime, è un insulto bello e buono. Chi è tuo alleato, in un momento in cui le contingenze della politica ti obbligano a stare insieme nonostante la storica avversione, non merita e non si aspetta attacchi frontali come quelli che il Pdl e il suo leader hanno subìto, specie negli ultimi mesi, da politica e certa Magistratura. Non più. Non adesso che si sta al governo insieme.
Alfano tutto questo lo ha capito ancora prima degli altri. Tanto che, complici il tragico avvenimento a Lampedusa e le diplomazie azzurre, lo scontro nel Popolo della Libertà diviene più morbido. La dialettica dentro ad un partito è fisiologica e stimola il dibattito e l’apertura e nuove posizioni dialoganti tra loro. Il Partito Democratico queste cose ce le insegna. Come dimenticare la votazione parlamentare in occasione dell’elezione del nuovo Capo dello Stato? Impallinarono loro stessi quel galantuomo di Franco Marini e quel buontempone di Romano Prodi (proposto al Colle da Matteo Renzi). Gli estremismi non vanno, come non vanno gli appecorinamenti (più o meno consapevoli) al tuo nemico, oggi alleato. Angelino Alfano decida se lo strappo va consumato in modo netto, quindi, o se i margini per una ricucitura del centrodestra sono reali e percorribili. Allo stesso tempo, le varie “colombe” cerchino di non trasformarsi anche loro in “falchi”. La leadership del Cavaliere non è in pericolo. Come ha detto lui stesso, decaduto o no non smetterà di essere il leader dei moderati italiani. Perché non è il seggio che fa un leader, ma il consenso popolare. I voti, appunto. Quelli che non tutti possono essere sicuri di avere. Tra i tutti non c’è Berlusconi, ovviamente.
































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