A partire dalla sua fondazione, e con l’ascesa di Matteo Renzi ai vertici del Partito Democratico ancor più, si è spesso parlato del Nuovo Centrodestra quale partito di mero sostegno al governo Letta, privo di qualsivoglia prerogativa di decisione politica. Questo assunto si deve peraltro al numero di Senatori e Deputati che esprime in Parlamento: rispettivamente trenta e ventinove.
Ciononostante, se volessimo attribuire più o meno importanza politica ad un movimento secondo una banale logica di proporzionalità rispetto ai seggi che detiene in seno agli organi elettivi, verremmo rapidamente smentiti sotto due profili: uno, relativo all’esperienza storica; l’altro, più squisitamente tecnico.
In un’ottica comparativa, prendiamo a modello due casi emblematici di partito liberale: quello inglese e quello italiano. I liberali italiani, per decenni, hanno contribuito a determinare le maggioranze dei governi democristiani, pur ottenendo pochissimi seggi; al contrario, i liberali britannici, se si escludono gli ultimissimi anni, non sono mai stati in grado di esercitare tale potenziale, sebbene fossero molto più consistenti degli omologhi italiani dal punto di vista della forza elettorale.
A questo punto si inserisce l’aspetto tecnico, che pure è temprato dall’esperienza. Giovanni Sartori, noto politologo italiano, suggerisce di considerare importanti i partiti che possiedono due ordini di potenziale: il «potenziale di ricatto» e il «potenziale di coalizione». Il primo consiste nella capacità dei partiti – in particolare di quelli collocati agli estremi dello spazio politico – di condizionare le strategie di altri partiti: ad esempio, quello di Sel in Italia, che vorrebbe allontanare il Partito Democratico dal centro moderato. Il secondo – quello che interessa da vicino questa tesi – consiste nella capacità di essere determinanti nella formazione delle maggioranze parlamentari (o di governo).
Il vero motivo per cui il Nuovo Centrodestra non può essere considerato ai margini della trattativa politica è proprio il suo potenziale di coalizione: la capacità, conquistata anche grazie a scelte politiche oltremodo impopolari (si pensi al possibile crollo della forza elettorale relativa come conseguenza dello strappo con Berlusconi, ai cui elettori rivolgeva sostanzialmente tutte le proposte programmatiche), di essere «vitale» per il governo.
Pertanto, l’attuale «azionista di maggioranza» non ha – men che meno sotto la leadership di Renzi – la necessaria «portata» per concedersi percorsi solitari o di rottura, né progetti a lungo termine che non siano preventivamente discussi e condivisi dalle parti. In questo senso, posto che ci sia un vero «potenziale di coalizione», è del tutto evidente che il numero dei rappresentanti del partito, benché infinitesimale, divenga per l’appunto trascurabile dal momento in cui ogni suo eletto assume carattere di indispensabilità ai fini della sopravvivenza dell’esecutivo.
































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