Per Alberto Trentini è stato il secondo Natale trascorso in cella, nel maxi-carcere venezuelano di El Rodeo I, dove è detenuto senza accuse da quasi 410 giorni.
I suoi genitori lo attendono in Italia e, intorno alla sua vicenda, continua a crescere una mobilitazione ampia e determinata: oltre 130 mila firme raccolte su Change.org, più di 300 giorni di digiuno a staffetta e l’attenzione costante della società civile chiedono allo Stato italiano di «fare presto» e riportarlo a casa.
Un segnale importante è arrivato anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nei giorni scorsi ha telefonato personalmente ai familiari.
Come racconta Avvenire, l’alba del 25 dicembre ha portato con sé una prima, seppur parziale, speranza: il rilascio di 99 prigionieri politici, tra cui il medico Marggie Orozco e il giovanissimo Ángel Gabriel González. Ma l’assenza di Trentini — così come quella di altri italiani detenuti, come Biagio Pilieri e Daniel Echenaguccia — resta una ferita aperta.
Il Ministero venezuelano per il Servizio penitenziario parla ufficialmente di “misure sostitutive della pena” e ribadisce il presunto “rispetto dei diritti umani”, in un contesto però segnato da forti contraddizioni e da una comunicazione che appare più difensiva che trasparente.
Sul piano diplomatico, la situazione è delicata. L’Italia sembra essere stata informata solo a decisioni già prese, alimentando il timore — espresso anche da fonti locali — che i rapporti tra Roma e Caracas siano in una fase di forte difficoltà. Questo rende complessa la missione dell’ambasciatore Alberto López, chiamato a ricostruire un dialogo e a riaprire canali di cooperazione tra i due Paesi.
Intanto il tempo continua a scorrere, e alla sofferenza di chi resta detenuto si somma quella delle famiglie. Maria Livia Vasile, moglie di un altro prigioniero, pur gioendo per chi è tornato libero, racconta quanto ogni giorno di attesa metta a dura prova la resistenza fisica e psicologica di tutti, in un contesto in cui il silenzio delle istituzioni rischia di diventare una seconda prigione.
Eppure, proprio la forza di questa mobilitazione — la solidarietà, l’attenzione dell’opinione pubblica, l’impegno delle famiglie e il coinvolgimento delle più alte cariche dello Stato — rappresenta oggi il segnale più incoraggiante. È da qui che può nascere una svolta: dalla pressione pacifica, dal dialogo diplomatico e da una comunità che non smette di chiedere giustizia. Perché ogni voce che si alza, ogni firma, ogni gesto di vicinanza accorcia la distanza che separa Alberto Trentini e gli altri detenuti dalla libertà, e rende più vicino il giorno in cui potranno finalmente tornare a casa.































