Un omicidio d’impeto e non legato alla ‘ndrangheta, il ‘raptus’ di un padre che aveva ‘paura’ di non vedere piu’ sua figlia. E’ in questo modo che Carlo Cosco, sentito per oltre quattro ore in aula, ha provato a giustificare la morte della sua ex compagna Lea Garofalo, escludendo qualsiasi piano da lui organizzato per ammazzarla e scagionando, in pratica, tutti gli altri 5 imputati, e in particolare i suoi due fratelli. Una versione a cui pero’, da quanto si e’ saputo, non crede, prima di tutti, la figlia Denise Garofalo, 21 anni, che come ad ogni udienza ha ascoltato nascosta in un corridoio, perche’ vive sotto protezione da quando ha deciso di aiutare gli inquirenti nelle indagini sul sequestro e l’uccisione della madre Lea, vittima, secondo l’accusa, di ‘lupara bianca’ anche perche’ era diventata testimone di giustizia, parlando di una faida di ‘ndrangheta. ‘Io non ho mai fatto parte della ‘ndrangheta e non ho mai avuto l’intenzione di uccidere la madre di mia figlia’, ha esordito – rispondendo alle domande del suo legale, l’avvocato Daniele Sussman Steinberg – Carlo Cosco, davanti ai giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano. Nei giorni scorsi l’uomo, condannato in primo grado all’ergastolo assieme ad altre cinque persone, aveva reso un breve confessione choc, assumendosi la responsabilita’ dell’omicidio avvenuto quasi 3 anni e mezzo fa, il 24 novembre del 2009. Un delitto che, secondo il pentito Carmine Venturino (anche lui imputato), venne ‘imposto dalla ‘ndrangheta’, perche’ la donna ‘portava una macchia’ per aver ‘abbandonato il marito in carcere’ e per avere parlato con i magistrati.
Carlo Cosco ha cercato proprio di smontare quei passaggi dei verbali del collaboratore di giustizia, negando di aver provato piu’ volte ad ammazzare Lea. Con lei, invece, stando al suo racconto, ‘dal luglio 2009’ stava riallacciando una relazione ‘con rapporti intimi, tutto per il bene di mia figlia’. Lea che, sempre secondo la tesi di Cosco, gli aveva anche confidato di aver detto ‘bugie’ ai magistrati, quando collaborava. Il 24 novembre 2009, l’uomo – questa la sua versione – porto’ Lea in un appartamento di un amico in piazza Prealpi a Milano per fargli vedere quella casa dove lui avrebbe voluto far stare Denise per qualche giorno a Natale, come ‘sorpresa’. Mentre le mostrava la casa, la donna avrebbe commentato dicendo che ‘il bagno era brutto, che io avevo detto che non avevo una casa e invece ce l’avevo, e altre brutte parole’. In particolare, ‘mi ha detto ‘non ti faccio piu’ vedere Denise”. A quel punto, ha proseguito Cosco ‘le ho dato un paio di pugni, e’ caduta per terra e le ho sbattuto la testa sul pavimento’. Secondo il pentito Venturino, invece, la donna sarebbe stata strangolata dall’ex compagno e dal fratello Vito e poi il cadavere bruciato per farlo sparire. Solo quest’ultimo punto e’ stato confermato da Cosco che ha detto di aver chiesto ‘aiuto’ a Venturino e a un altro imputato, Rosario Curcio. La versione di Cosco, pero’, e’ stata poi messa alla prova da una serie di domande da parte del pm Marcello Tatangelo e del presidente della Corte, Anna Conforti. Un racconto che anche a Denise, che voleva dal padre la ‘verita”, da quanto si e’ saputo, e’ parso ‘senza logica’, anche perche’ lei alla fine del 2009 era quasi maggiorenne e la madre non avrebbe potuto imporle di non vedere piu’ il padre.
Il 15 maggio arrivera’ in aula la perizia sui profili genetici dei resti trovati grazie alle rivelazioni di Venturino. Oggi, la consulente del pm, l’antropologa forense, Cristina Cattaneo, ha spiegato che ‘sono da identificare in Lea Garofalo’. La difesa di Cosco, intanto, ha chiesto di riaprire ancora una volta il processo ascoltando numerosi testimoni e facendo nuovi accertamenti.
































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