Decapitati i vertici della mafia? Quanto volte l’abbiamo letta. Tante, troppe volte. Colpita al cuore la mafia? Un’infinità di volte l’abbiamo sentita. E tantissima gente si è illusa, ministri e politici in testa al popolo dei creduloni per finta o per opportunismo. “La mafia torna a sparare”, si legge oggi, come se i mafiosi avessero mai smesso di uccidere o uccidersi fra loro.
Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi, quasi come i giudici Falcone e Borsellino: lui però meno sventurato, forse perché gli attentatori non volevano che morisse. Forse intendevano avvertirlo, chissà. Oppure il caso ha voluto che il presidente si salvasse, complici la relativa capacità dei killer e la prontezza degli agenti di scorta, solleciti nell’inscenare lo scontro a fuoco con gli attentatori. Nel buio della notte in montagna, intorno all’una, lungo i tornanti tra Cesarò e San Fratello, dalle parti di Messina. Tre i killer, incappucciati e armati di fucili, possessori anche di bombe molotov. Non hanno fatto in tempo a tirarle.
Giuseppe Antoci era reduce da una manifestazione pubblica a Cesarò con relativa cena sul posto con il sindaco del paese e il commissario di Sant’Agata di Militello. Sotto scorta da tempo, il presidente del Parco dei Nebrodi si dirigeva verso casa, a Santo Stefano di Camastra. I killer di lui sapevano tutto, dove sarebbe andato martedì e che strada avrebbe fatto per tornare a casa, sicuri che si sarebbe mosso a bordo di un’auto blindata con tutela. Ignoravano però che a distanza di dieci metri viaggiava, per caso, un’auto civetta della polizia con a bordo appunto il commissario di Sant’Agata di Militello e un altro poliziotto. Deserto il luogo, l’ideale per un agguato mortale.
Giuseppe Antoci, quarantotto anni, sposato e padre di tre figli, aveva ricevuto minacce a metà dicembre del 2014. Un biglietto all’interno di una busta spedita da Catania, come provava il bollo postale. Inequivocabile il contenuto, scritto con lettere ritagliate dai giornali, in minuscolo e maiuscolo, scomposto l’allineamento: “Finirai scannato come Crocetta”.
È andata così, e bene è finita per il presidente del Parco dei Nebrodi. L’auto, una Lancia Thema blindata, è costretta a fermarsi a causa di alcuni massi sulla strada che le impediscono di proseguire. Un commando di tre persone armate di fucili a pallettoni sbuca dal bosco e spara. Un agguato in piena regola, pensato, studiato, preparato. I poliziotti della scorta scendono dall’auto e fanno fuoco contro il commando. I malviventi fuggono nella boscaglia dove probabilmente un fuoristrada li stava aspettando. La mafia ha ripreso a sparare.
“Ho paura per le mie tre figlie”, confessa ora Antoci, in un mare di lacrime. La Polizia scientifica ha recuperato tre molotov inesplose. Sarebbero servite a far scendere Antoci e la scorta dall’auto bloccata dal sassi sistemati ad arte sulla carreggiata. I killer hanno usato fucili e munizioni per la caccia al cinghiale. Antoci confessa di aver vissuto attimi di terrore. “Quando ho visto che qualcuno stava apprendo lo sportello dell’auto ormai crivellata di colpi ho pensato che sarei morto davvero. Poi mi è apparso davanti il volto del vice questore Daniele Manganaro e l’ho abbracciato con tutte le forze che mi erano rimaste”.
La mafia ha voluto far risentire nuovamente la sua voce. Ha urlato con i fucili a pallettoni dei tre sicari scelti per ammazzare. “So chi mi vuole morto e pensavo che questa volta l’avrebbe avuta vinta”.
Chi e perché vuole la morte del presidente del Parco dei Nebrodi? Antoci ha vissuto gran parte della sua vita in banca, prima di diventare presidente, l’incarico che l’ha proiettato in prima linea nel territorio mafioso più violento della Sicilia.
“Abbiamo tolto terreni a Cosa Nostra e toccato interessi milionari. In passato c’erano collusioni, ora i clan non dettano più legge”. Giuseppe Antoci invita lo Stato a tenere alta la guardia, a non distrarsi, a metterci tutta l’attenzione e l’energia necessarie. “I mafiosi hanno provato a scannarmi e sono ancora vivo. Ma adesso lo Stato deve tornare a essere presente in questo territorio abbandonato. Una seconda volta i mafiosi non sbaglieranno”.
Giuseppe Antoci è sotto tiro e sotto minaccia. Sottoscorta da mesi, pretende un documento che nessuno aveva mai chiesto all’interno del Parco dei Nembrodi: la certificazione antimafia. Ha revocato quattrocento ettari di terreni e inventato un protocollo che rende obbligatoria la richiesta del documento antimafia anche per l’assegnazione di beni di valore inferiore a centocinquantamila euro. “Prima bastava un’auto dichiarazione e tutto finiva in gloria”. Il business dei pascoli è diventato un filone d’oro, grazie ai fondi dell’Unione Europea. Pare renda addirittura più della droga. Un grande affare, fino a quando il meccanismo si è inceppato.
Il provvedimento di revoca di quattrocento ettari di terreno è stato sottoscritto da tutti i sindaci del Parco. E alcuni lo hanno applicato alla lettera. Il sindaco di Troina ha revocato da solo quattromila ettari di terreni affidati a persone in odore di mafia. Parenti delle famiglie più pericolose della zona. “Anche lui è sottoscorta”. Il governatore regionale Rosario Crocetta si è dichiarato disponibile a rivelare in piazza i nomi dei mafiosi. “La mafia ha alzato il tiro. Propongo l’invio dell’esercito e perquisizioni a tappeto nelle campagne come ai tempi dei Vespri Siciliani”.
I nomi dei boss pare siano noti a tutti. I boss dei potenti clan di Tortorici, che hanno scoperto il florido business dei contributi europei alle aziende agricole. Mafiosi in quanto tali, non sono evidentemente nella condizione di produrre corretti documenti antimafia. Laddove la delinquenza pensava si trattasse solo di parole. Antoci è stato nominato presidente del Parco dei Nebrodi dal governatore Crocetta. Ritiene di avere in mano lo strumento per fare pulizia. “In passato c’è stata una forte collusione tra politica e mafia. Le istituzioni chiudevano gli occhi e qui regnava un’illegalità diffusa. Qualcosa sta cambiando”. E lui promette di non fermarsi, ma ad una condizione: che lo Stato faccia la sua parte e non lasci soli Antoci e i sindaci del Pardo dei Nebrodi. “Sì, io non mi fermo perché intendo liberare la mia terra. Proprio ai miei figli lo devo. Non mi fermeranno, non temo la mafia e neppure la ‘ndrangheta”.
La Calabria è con lui, le persone di coraggio sono tutte dalla parte di Giuseppe Antoci. Il presidente del coraggio e della determinazione, il nemico che la mafia vuole ammazzare, costretto a vivere sottoscorta. L’auto blindata e la mano di Dio gli hanno salvato la vita. Tifiamo per lui, incitiamolo ad andare avanti, stringiamogli la mano, convinti che a qualcosa serva.































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