C’e’ una buona dose di ambiguita’, se non di ipocrisia, nel dibattito scatenato dai partiti sul futuro di Mario Monti. Tutti dicono di puntare alla vittoria alle elezioni, ad un governo politico che riporti l’Italia alla normalita’. Ma tutti sanno che cio’ ben difficilmente sara’ possibile. Innanzitutto perche’ non si sa ancora con quale legge elettorale si andra’ al voto; e poi perche’ i modelli ai quali si lavora sembrano congegnati in modo da favorire solo vittorie di stretta misura se non addirittura un pareggio. In scenari di questo tipo, come dice Bruno Tabacci, e’ forse meglio rendersi conto che il Paese non potra’ prescindere dalla figura del Professore e dalla sua agenda, dalla sua competenza e dalla sua credibilita’ internazionale. In fondo e’ quello che Monti ha lasciato intendere nel momento in cui si e’ dichiarato disponibile a proseguire nell’azione di governo. Una ‘ipotesi di rimessa’, come la definisce Fabrizio Cicchitto, ma una ipotesi molto fondata stando agli attuali sondaggi. In base ai quali solo due maggioranze sembrano poter emergere dalle urne: Pd-Udc-Sel oppure l’attuale Pdl-Pd-terzo polo.
Si capisce cosi’ perche’ la sortita di Monti abbia innervosito il Pd: ipotizzare un Monti-bis non vuol dire solo prevedere che la recessione prosegua (come osserva Vendola) ma anche gettare un sasso nell’ingranaggio della coalizione progressista che Bersani sta cercando di mettere in piedi per poi allearsi con Casini. Il governatore della Puglia accusa il premier di voler smontare un colpo alla volta lo Stato sociale, di non aver colpito nemmeno marginalmente i ricchi, di aver aggravato la recessione con la sua politica di austerity appiattita sul rigorismo tedesco. Per un Bersani che ritiene invece la politica del rigore un punto che non puo’ essere messo in discussione ma solo arricchito con piu’ lavoro e piu’ uguaglianza, la prematura dichiarazione di Monti rischia di rivelarsi un’equazione politica difficile da conciliare con l’ antimontismo dell’alleato: non a caso il segretario del Pd precisa che il partito non dice no a priori al Professore (il quale dovra’ continuare a servire il Paese) ma solo che la politica deve riappropriarsi dei suoi spazi e delle sue responsabilita’.
In altre parole i partiti non vogliono sentirsi delegittimati in partenza, le elezioni saranno il loro vero banco di prova (Gasparri) e certo non possono presentarsi agli elettori come se si trattasse di un passaggio che non cambiera’ niente. Anche perche’ un nuovo governo tecnico potrebbe comunque avere un profilo piu’ politico. O perche’ Monti potrebbe svolgere il ruolo di garante dal Quirinale, analogamente a quanto ha fatto in questi mesi Napolitano. Resta il fatto che la ricandidatura di Monti e’ gia’ oggi sostenuta da un ampio arco di forze che va da Marchionne a Squinzi, dalla Cei ai centristi di Casini e di Fini fino ad alcune aree del Pdl e del Pd. Lo stesso Berlusconi sembra ritenere questa ipotesi il male minore per una destra in crisi d’identita’. E un modo per riagganciare Casini.
Questo schieramento dovra’ tuttavia fare i conti con la protesta montante nel Paese. Finora la politica economica dei tecnici non e’ riuscita a contrastare la recessione e se le cose resteranno cosi’ e’ possibile che una parte di indecisi ed astensionisti vada ad ingrossare le fila dei partiti d’opposizione o del grillismo. Tutto a quel punto dipenderebbe da quanti voti riuscirebbero a drenare. Ecco perche’ e’ cruciale la scelta della nuova legge elettorale: la settimana prossima la commissione competente del Senato dovrebbe adottare un testo base condiviso dalla ‘strana maggioranza’. Vorrebbe dire che l’accordo a tre regge in un passaggio delicatissimo. Che certi canali sono ancora aperti. Ma se cio’ non dovesse accadere, si andrebbe a votare quasi certamente con il Porcellum: un brutto segnale per tutti. Un segnale di caos.
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