"Gia’ mi sembra di vederlo, seduto su uno dei tanti rami di quella vita che non puo’ finire. Bello, giovane come non lo e’ mai stato, e farsi due risate, mentre qui da basso noi lo piangiamo come se non dovessimo piu’ incontrarlo". Cosi’ Adriano Celentano ricorda sul suo blog Enzo Jannacci. "Era il 1956 – ricorda – quando nelle balere della vecchia Milano si aggirava uno strano tipo, morto di sonno a causa di un secondo lavoro, intrapreso quasi a sua insaputa, che gli permetteva di dormire non piu’ di tre o quattro ore per notte. Un lavoro mai remunerato se non con un semplice panino e una birra: di notte si dimenava nei locali notturni mentre di giorno, quasi russando, aggiustava gli orologi. L’appuntamento era in via Anfossi, a Milano, nei paraggi di Porta Vittoria. Una sala prove dove Enzo Jannacci, Giorgio Gaber ed io ci incontravamo per confrontarci sul grande repertorio di Bill Haley. Con noi c’erano i fratelli Ratti, chitarra, basso, batteria, e Pino Sacchetti al sax. Eravamo il primo gruppo rock italiano, per non dire europeo dato che non ce n’erano in Francia, in Germania, Belgio, Olanda, Spagna, ma solo in Inghilterra cominciavano a nascere dei gruppi musicali, fra i quali quello di Cliff Richard, da tanti considerato come un probabile antagonista di Elvis Presley, e quello di un certo Tommy Steele".
"Ma noi eravamo noi – continua il Molleggiato – Convinti che il rock non fosse soltanto fare musica ma soprattutto essere rock dentro, ribelli nell’anima. Non si puo’ immaginare a quali livelli di divertimento e scatenamento ci portava il suonare quei brani cosi’ rumorosamente allegri. Era tale la spaccatura fra i Rock boys (cosi’ ci chiamavamo) e la vecchia guardia di Claudio Villa, Luciano Tajoli, Nilla Pizzi e altri, che ci eravamo soprannominati "la TEMPESTA" e, la "grandinata" piu’ dirompente era proprio Enzo Jannacci. Ricordo che ad ogni inizio di un brano partivamo quasi da fermi, come statue, ma nel "solo d’orchestra" succedeva di tutto. Piu’ di una volta, rapiti dal ritmo, mi trovavo sdraiato per terra con la chitarra sotto le gambe di Enzo Jannacci che ad un determinato stop abbandonava il piano e, abbracciando la sua di chitarra, era in piedi sopra di me, mentre Gaber e Ratti, presi anch’essi dal delirio, si inginocchiavano affiancandoci. Ma a Enzo non bastava: come un folletto impazzito ritornava al pianoforte e si esibiva in uno dei suoi strepitosi assoli, spesso piu’ jazz che rock. "Lo sai – mi disse un giorno – quando ho spiegato ai miei colleghi che anche il rock mi piace, si sono scandalizzati". Nei primi tempi infatti era quasi una moda il voler prendere le distanze da questa nuova ondata musicale da parte di alcuni jazzisti, ma Enzo no. Lui era veramente una forza della natura. Sia che suonasse jazz o "Rosamunda" ci metteva lo stesso entusiasmo. Perche’ lui era davvero amante della vita in tutte le sue manifestazioni, nonostante facesse fatica a credere che questa di vita, un giorno potesse continuare".
































Discussione su questo articolo