Di «svolta radicale» parla Matteo Renzi all’indomani della sua investitura a capo dell’esecutivo. E certo l’agenda con cui presenta il suo «governo di legislatura» rende bene l’idea di cosa egli intenda per «svolta radicale»: legge elettorale e riforme istituzionali entro febbraio; riforma del mercato del lavoro a marzo; deburocratizzazione degli apparati della pubblica amministrazione per la fine di aprile; e riforma del fisco prima dell’estate (tassazione progressiva sulle rendite finanziarie e agevolazioni per i redditi inferiori ai quindicimila euro). Quattro mesi per quattro cose che l’Italia aspetta da quarant’anni.
Alla Camera dei Deputati in cui si svolge il giro di consultazioni, Renzi arriva senza scorta, per una questione di abitudine («a me la scorta non mi gggarba») ma anche di immagine: «Non voglio neppure dare al Paese l’impressione di un uomo che il giorno stesso in cui va al governo cambia status e stile». Per l’ex sindaco di Firenze l’immagine è sempre contata parecchio, motivo per cui molti ancora non si spiegano cosa lo abbia spinto ad arrivare allo «strattone» con cui ha defenestrato Enrico Letta, a cui pure ostentava indulgenza e tolleranza (#enricostaisereno).
Disorientato in quel di Montecitorio – «Dove si va, per di qua?»; e poi: «Ci siamo persi Graziano (Delrio, suo plenipotenziario, ndr) – Renzi sembrava in preda ad un disturbo ossessivo-compulsivo che manifestava schiacciando i polpastrelli sulla tasca della giacca, per controllare che il fogliaccio in cui sono abbozzati i nomi dei ministri fosse al suo posto, ben ripiegato. Pare che il nuovo premier si sia dato da fare negli ultimi giorni per avere la «squadra pronta entro la settimana», anche se l’unico nome scritto con penna indelebile è quello della fedelissima Maria Elena Boschi per le Riforme. Non a caso, una volta rimasto in ascensore con cronisti armati di telecamere, Renzi ha sospirato: «Very dangerous».
Nei prossimi dieci giorni, «Renzie» – così lo chiamano alcuni detrattori, evidenziandone la somiglianza con Fonzie di Happy Days – si giocherà peraltro una gran fetta di «credibilità politica»: la condizione infungibile è trovare un accordo, il più solido possibile, con Angelino Alfano, senza il quale Matteo rischierebbe di perdere il posto ancor prima di averlo ottenuto.
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